Quando, nel luglio 2019, The Cuphead Show! venne annunciato da Netflix, il sottoscritto ebbe qualche difficoltà a mantenere la calma, anche su queste pagine. I tie-in dal mondo videoludico si sono da tempo liberati di quella patina imbarazzante che li ricopriva agli esordi, tempi in cui quasi ogni film o serie tratta da un videogioco altro non era che un efficace strumento per vederlo devastato senza pietà. Gli ultimi anni in particolare hanno visto una sequela di produzioni di fattura apprezzabile a diversi livelli, fino a una consacrazione simbolica pesantissima come quella di Ready Player One, vale a dire uno dei più grandi registi viventi che trasporta dal libro alla sala cinematografica un’opera che è un tributo vivo e appassionatissimo al mondo videoludico. E proprio Netflix pare particolarmente interessata e ispirata in questo ambito: Castelvania e League of Legends hanno ricevuto produzioni televisive apprezzatissime, risultati che si spera di replicare nel prossimo futuro con Resident Evil e Splinter Cell, per citarne un paio.
Ciononostante il timore serpeggiava nel mio cuore di hypeato: Cuphead è un titolo che ha fatto della cura del proprio comparto video-audio un esempio di qualità creativa e tecnica, mentre la trama è semplice e appena accennata, un casus belli finalizzato soprattutto a dare uno scopo narrativo all’esperienza del bullet hell.
Ora, dopo aver bingwatchato (sì, Accademia della Crusca, vienimi a cercare) la serie, sono pronto a dirvi se le due tazze più animate del mondo contengono drink deliziosi anche in formato televisivo.
Il primo impatto è più che positivo: The Cuphead Show è un piccolo sogno ad occhi aperti per gli amanti del gioco. Tecnicamente la serie fa onore a quel capolavoro visivo disegnato a mano che è la versione videoludica, offrendo al tempo stesso un’immagine più moderna, più in linea col mondo cartoon contemporaneo. Vale a dire che l’estetica generale, l’ispirazione e il feeling restano ancorati alle tecniche e alle produzioni della prima metà del Novecento, ai classici Disney, ai lavori dei Fleischer Studios, ma nel passaggio dal joypad al telecomando Cuphead va ad attingere anche dalle opere degli ultimi anni, e certe animazioni, certe espressioni, potranno ricordarvi Rick and Morty o Gravity Falls, ad esempio.
Ma a scaldare il cuore dei videogiocatori sarà soprattutto la messa in scena della lore: le isole Inkwell, le loro strade alberate e le loro case, l’amato nonnino Elder Kettle, il diavolo e il suo braccio destro King Dice, ma anche i due fratelli Ribby a Croaks, le celeberrime verdure di The Root Pack, e poi una miriade di personaggi minori e comparse, il mondo di Cuphead e Mugman rivive vibrante nei 12 episodi proponendo caratteri noti e sviluppandone di nuovi.
E le immagini sono accompagnate egregiamente dal comparto audio, e nuovamente le nostre orecchie si trovano a ballare un jazz sempre in tono con gli avvenimenti. Benissimo il doppiaggio, sia in inglese che in italiano, dove figurano pesi massimi del settore come Davide Garbolino (voce, tra le altre, di Ash Ketchum), Gianni Giuliano (Telespalla Bob ne I Simpson), Christian Iansante (Rick Sanchez in Rick and Morty, gli attori Bradley Cooper e Ewan McGregor), Franco Mannella (Roger in American Dad). Il sottoscritto ha preferito la versione inglese per gusto personale e per una maggiore autenticità dei testi, ma il lavoro compiuto dal cast italiano è di alto livello.
Quindi la resa estetica è riuscita e va bene, ma qui non siamo noi a muovere i personaggi, sparare da un dito contro i nemici e raccogliere monete, va da sé che l’impianto narrativo debba essere soddisfacente e coerente. Lo è?
Il primo episodio riprende il leitmotiv noto delle tribolazioni delle nostre tazze del cuore, ossia l’annoso impiccio del dovere l’anima al diavolo (mica ca**i), intreccio posto in background per tutta la serie e che appunto lì rimane per la maggior parte delle puntate, perché ad essere rappresentate sono piuttosto situazioni tipiche dei cartoon del secolo scorso, classici indimenticati come il ritrovamento di una culla abbandonata davanti alla porta di casa, o l’immancabile casa infestata. Il tono è comico ma manca dell’irriverenza del videogioco, di quel doppio piano di lettura sempre percepito, e in questo sorge uno degli interrogativi della serie: a che target è rivolta? Probabilmente ad uno molto giovane, pur non essendo indirizzato a questo soltanto, e manca però quella verve grigia e nera, fumosa, che esprime bene gli anni a cui la produzione si riferisce e nei quali le vicende hanno luogo.
Le situazioni in sé non sono poi tutte irresistibili, la fabula procede con picchi altalenanti e si regge soprattutto sulla simpatia dei personaggi, il cui profilo caratteriale riprende e sottolinea quello presentato nel gioco: Mugman è più pavido e conseguentemente più saggio, mentre Cuphead è anche qui il motivo scatenante dei guai. Un fratello come un altro, insomma.
C’è anche spazio per conoscere meglio il personaggio di Ms. Chalice, coprotagonista dell’attesissimo DLC in arrivo a giugno, e questo elemento suggerisce una delle potenzialità del format seriale: quello di intrecciarsi meglio col videogioco, di modo che l’uno diventi l’approfondimento dell’altro, e insieme estendano il mondo interno di un’opera che ha già incantato milioni di persone. Ciò è possibile però mantenendo una linea coerente tra i due media.

Alla fine dei conti The Cuphead Show! convince, ma considerandolo l’inizio di un qualcosa di più elaborato nella narrazione. Il potenziale visivo è immenso, il gioco dei rimandi e delle situazioni praticamente illimitato, e però occorre che tutti gli aspetti siano curati col medesimo zelo, la bilancia creativa non può sostenere un piatto tecnico più pesante di quello diegetico. Piacerà ai fan del videogioco, ai più piccoli, mentre per gli altri potrebbe risultare un buonissimo esercizio di stile estetico e poco altro.
Netflix non ha il tipo di fame che ai tempi avevano i fratelli di Studio MDHR, e così neanche il coraggio, probabilmente: ma Cuphead vive della sua incoscienza, dentro e fuori il racconto, e non può essere lo stesso accomodandosi su facili soluzioni. Here’s a real high-class bout, no?