Nuova gen, nuovi standard al ribasso
Di solito inizio le mie recensioni con un incipit di contesto, una menzione alla serie di cui si sta trattando, per poi proseguire con un accenno alla trama. Stavolta invece credo sia necessario partire da qualche domanda. Cos’è oggi Pokémon? Cosa rappresenta per i videogiocatori? Quale prodotto rappresenta di più i mostriciattoli tascabili concepiti da Tajiri? Mi soffermerei in primis sull’ultima domanda, perché è quella che mi sono posto più volte giocando Scarlatto e Violetto.
Il media brand che fattura di più al mondo dovrebbe ambire a distribuire prodotti perfettamente confezionati, che sia un pacchetto di carte o un’esperienza di gioco formato software. E infatti, ogni aspetto del TGC è curato in modo maniacale. Idem per l’anime Pokémon, che sebbene orientato verso un target giovanissimo, si presenta lindo e pinto. Nelle fumetterie, sono anni che il manga riesce a offrire una controparte narrativa valida e appagante. Sugli smartphone, Pokémon GO, che dopo gli inizi a dir poco roboanti sembrava esser diventato un fenomeno di passaggio, col tempo si è raffinato e arricchito al punto da divenire un’esperienza totale. Nei Pokémon Center il merchandise ha un ricambio a dir poco spaventoso e vende meglio della pizza fritta a Napoli.
Teniamo un attimo da parte i videogiochi dall’equazione: così facendo oserei dire che il brand sia perfettamente rappresentato da ogni sua possibile iterazione, tutte le variabili sono al loro posto. E sempre tenendo a mente questa premessa, paragonando il brand a un organismo, potremmo dire che si tratta di un organismo in perfetta salute: tutte le funzioni vitali sono al 100%. Bene, torniamo alla nostra equazione e inseriamo la variabile V, che sta per Videogiochi. Ecco che d’improvviso il nostro organismo ha un tracollo. Per la precisione, un infarto. Sì, perché il prodotto che dovrebbe rappresentare l’essenza stessa del brand Pokémon, il suo cuore pulsante, è marcio dentro.
Il brand Pokémon ha un cuore marcio. Che non si sa come, continua a pulsare.
Te ne rendi conto dai primi minuti di Pokémon Scarlatto e Violetto. Un’introduzione senza il benché minimo doppiaggio, con cutscene incollate male, dove non ci si è presi nemmeno la briga di costruire una sequenza di immagini che abbia senso. Addirittura, si passa da sequenze animate con grafica di gioco a screenshot del mondo di Paldea, regione che ospita la nuova generazione. A questo si aggiunge un comparto tecnico/grafico da far venire la pelle d’oca. Mai, e sottolineo, mai, mi sono trovato davanti a un gioco tecnicamente così fallace e obsoleto. L’open world messo in piedi da Game Freak è funestato dai problemi tecnici.
Il framerate è altamente instabile, Paldea scatta un secondo sì e l’altro pure, anche nei titoli di coda: ogni minima azione, anche la più banale, come il movimento della telecamera, altera il conteggio dei frame per secondo. Le transizioni di lotta non sono mai armoniose, si alternano con la grazia di un Groudon. I caricamenti sono lunghi senza una reale giustificazione, i Pokémon poppano nell’overworld a un metro di distanza distruggendo l’immersione del giocatore e alterando la ricerca e l’esplorazione. Le texture del mondo di gioco sono grezze, appiccicate a modelli grossolani di piane e montagne. Le città diventano dei semplici hub con NPC fissi, negozi tutti uguali e nei quali, salvo rare eccezioni, non si può nemmeno entrare; un peccato perché architettonicamente parlando esprimono una qualche personalità.
C’è un continuo riciclo di ambientazioni e di soluzioni di design al limite del ridicolo, tanto che ci si stupisce quando il gioco, in rarissimi sprazzi di coraggio, prova a fare qualcosa di… normale. Insomma, Pokémon Scarlatto e Violetto si presentano così a giocatori esperti e non. Dicono che un libro non si giudichi dalla copertina, ma la copertina di questa generazione è sbiadita, strappata e piegata in più punti. Si arriva persino a rimpiangere il comparto grafico di Leggende Pokémon: Arceus, che col suo cel-shading risultava essere più grazioso e persino ricercato.
E proprio tenendo a mente quell’atipico spin-off, che ricordiamo essere uscito soltanto a febbraio di questo stesso anno, si rimane straniati dalla perdita di quelle che sembravano essere diventate, dopo anni e anni di adeguamento agli standard ruolistici, aggiunte ormai inamovibili per la serie. Le meccaniche derivanti dell’utilizzo di bacche e di Ball speciali durante la cattura vengono buttate nel dimenticatoio. I Pokémon selvatici tornano a essere approcciati solo con la lotta. Il crafting degli strumenti viene rimpiazzato dalla creazione delle MT. Abbandonata la raccolta di piante, bacche e minerali che almeno riempivano aree altrimenti pressoché vuote. Guardando a Hisui, persino muoversi entro i confini di Paldea risulta essere più macchinoso: Koraidon e Miraidon, per quanto duttili, non offrono le stesse possibilità e velocità negli spostamenti. Si rimpiange anche quell’immediatezza nelle transizioni tra una lotta e l’altra, tra una cattura e la successiva, il comando a un Pokémon di andare alla ricerca di tesori nascosti. Sapere che dietro due giochi così vicini tra loro ci sia la stessa software house rendono questa percezione del vecchio, queste perdite, ancora più paradossali.
Pokémon Scarlatto e Violetto fanno rabbia. Perché dietro il marciume del comparto tecnico, dietro uno sviluppo sicuramente travagliato e pressato dalla dura legge del marketing, guardando oltre le ormai acclarate incapacità di Game Freak, insomma, oltre i cieli dell’avventura, s’intravede ciò che questa generazione poteva essere. Per la prima volta in un gioco main della serie abbiamo un open world esplorabile più o meno liberamente e che non ha un percorso predefinito.
Le palestre, che costituiscono “Il Cammino dei Campioni”, valicate specifiche barriere di design, possono essere affrontate seguendo il proprio spirito d’iniziativa, una vera e propria ventata d’aria fresca per chi ha mal digerito la linearità di Spada e Scudo. Alla quest principale si affiancano poi altri due filoni narrativi: uno dedicato al personaggio di Pepe e alla ricerca di spezie segrete, “Il Sentiero Leggendario”, condito (scusate il gioco di parole) con le lotte contro i Pokémon Dominanti, e il secondo, “Il Viale della Polvere di Stelle”, incentrato sul Team Star, gruppo di ribelli che sta creando non pochi grattacapi al preside dell’Accademia Arancia, istituto frequentato dal protagonista e che gli fa muovere i primi passi come allenatore. Nel corso di entrambi questi filoni avremo a che fare con delle vere e proprie boss battle: i Dominanti, versioni più corpacciute dei Pokémon di Paldea da un lato, e i capi degli insediamenti del Team Star dall’altro. Non ci sono novità particolari, a meno che non si voglia menzionare la sfida a tempo che precede le lotte contro i rappresentati del Team Star e che fa uso della meccanica “Let’s go” introdotta in questa nuova gen, che permette di mandare all’attacco un nostro mostriciattolo e di avanzare una battaglia automatica.
Le main quest si snodano parallelamente ma si influenzano a vicenda dal punto di vista narrativo ed è quindi necessario completarle tutte e tre per vedere i credits. La trama sa offrire qualche spunto interessante, principalmente per la sensibilità verso tematiche oggigiorno affrontate fin troppo di rado, ma nel complesso soffre gli ormai classici toni lassi e talvolta inutilmente prolissi di Game Freak. Vuoi per la mancanza del doppiaggio, per scene di intermezzo mal realizzate, per la scrittura banale e contraddittoria, o per la quasi totale mancanza di espressività dell’avatar — torniamo quindi a rimpiangere Leggende Pokémon — non si ha mai la sensazione di essere al centro dell’azione, né di fare sul serio la cosa veramente giusta.
Se non altro il livello di difficoltà sa come tenere impegnati anche i veterani della serie, in primis per l’approccio libero alle varie aree di Paldea, popolate in certi momenti da mostriciattoli più forti del nostro team, e in secondo luogo per le boss fight menzionate sopra, ben più impegnative anche di una classica lotta contro il capopalestra di turno. Menzione d’onore all’IA, che finalmente, con moveset più complessi e ragionati, sa come colpire le debolezze di un team buildato male. Apprezzabile anche la nuova meccanica dietro il fenomeno Teracristal, in grado di mutare il Tipo delle nostre bestiole in un Teratipo, nascosto fino a quando non viene attivato in battaglia e che permette di sfruttare mosse e abilità inizialmente trascurabili.
E se a delle buone trovate in termini meccanici affianchiamo la solita, ormai collaudata, formula Pokémon, con le sue debolezze, Tipi, Nature e via dicendo, fa ancora più rabbia rendersi conto che i contenuti post credits, che dovrebbero trarre il massimo della profondità strategica, non sono soltanto esigui, ma persino mal programmati. L’online di Scarlatto e Violetto è forse la ciliegina sulla torta di un comparto tecnico nato per far soffrire: tra code per le lobby dove bisogna sperare di accedere nella prima mezz’ora, menu che compaiono a caso, counter che si resettano, barre degli HP che pur azzerate non portano alla sconfitta del Pokémon avversario, lag, disconnessioni improvvise, c’è n’è per tutti e di tutti i gusti. Pur mettendocela tutta, ci troviamo davanti a un gioco che non si fa giocare.
La nona generazione è un caso più unico che raro. Con la giusta dose di competenza e di buon senso poteva innalzare una IP allo stesso livello qualitativo di Mario e Zelda, sfruttando una formula, quella dell’open world, in grado di valorizzare qualcosa che solo i giochi di Game Freak possono vantare: i Pokémon. Un potenziale che nemmeno Nintendo sembra intravedere, la stessa azienda che ripone un’attenzione smisurata nei confronti di ogni sua creatura, la stessa Nintendo che concede a Ubisoft la licenza di Mario a patto che i suoi baffi siano pettinati come piacciono a Miyamoto.
Nintendo non vede i Pokémon come li vediamo noi? Allora forse Nintendo non vede nemmeno noi giocatori.