Nosalgia digitale
Nostalgia e malinconia. Gli stati d’animo principali che Lost Sphear potrebbe trasmettere ai veterani del genere rpg, a quei giocatori che sono inevitabilmente cresciuti con le perle create da Squaresoft negli anni ’90. Capolavori mai troppo celebrati, giochi indimenticabili e pietre miliari che non invecchiano mai, in grado tranquillamente di competere con gli esponenti odierni del genere, come, per restare in casa Nintendo, Final Fantasy VI, Secret of Mana o Chrono Trigger (purtroppo escluso dal catalogo dello Snes Mini).
Tokyo RPG Factory ci ha già deliziato con I Am Setsuna poco dopo il lancio di Switch e Lost Sphear ne è praticamente il seguito spirituale, presentandone le stesse meccaniche di gameplay, raffinate, e lo stesso stile narrativo/visivo.
Lost Sphear è un tributo a tanti titoli del passato, non solo Chrono Trigger o Secret of Mana ma anche la trilogia di Gaia, creata proprio da Enix per SNES e composta da Soul Blazer, Illusions of Gaia e Terranigma. Il tema centrale dei tre giochi era la ricostruzione del mondo, la restituzione delle memorie alle persone e il potere di tracciare un ponte tra il passato, il presente e il futuro. La capacità di creare nuovamente quello che era andato perduto, un mondo inizialmente piccolo ma strettamente dipendente da noi, per rinascere.
Elgarthe è un piccolo villaggio di montagna, tranquillo e pacifico, località in cui vivono Kanata e Lumina, protagonisti principali del gioco insieme a Locke. Tre ragazzi, tre amici d’infanzia che trascorrono pacifiche giornate senza il rischio di affrontare pericoli imminenti, distanti, come Elgarthe, dal mondo esterno.
E sopra di loro si staglia la Luna, fonte d’ispirazione per canti e leggende e considerata la culla della vita.
Al ritorno da un’escursione fuori città, i tre ragazzi si troveranno di fronte a una impenetrabile foschia bianca, un vero e proprio “nulla”, simile a quello de “La Storia Infinita”, che ha divorato il loro villaggio, cancellandolo dalle mappe. Kanata, con sua grande sorpresa, scoprirà di essere l’unico in grado di ricostruire i frammenti di mondo scomparsi, destando l’attenzione dell’esercito reale e rivelandosi, l’unica speranza per risolvere il mistero della foschia e salvare il mondo da una fine inevitabile.

Se c’è un gioco il cui sistema di combattimento ricorda quello di Lost Sphear, è sicuramente Chrono Trigger.
Le battaglie sono a turni, modellate intorno a un classico ATB (Active Time Battle) e si svolgono nelle aree in cui si trovano i nemici, la maggior parte delle volte larghe e con buone possibilità di movimento. Gli attacchi, effettuabili al riempimento della barra di attesa, sono ad area e una volta selezionata l’azione è possibile spostare il personaggio attorno al nemico (o ai nemici), permettendo di colpire anche molteplici bersagli alla volta o sfruttando punti deboli dell’avversario. L’azione avviene senza pause e durante la scelta del posizionamento dell’unità, i nemici possono attaccare.
Posizionare correttamente la propria unità è importante per evitare gli attacchi ad area del nemico, diminuire il danno subito e sfruttare al massimo le caratteristiche delle classi dei personaggi, divise, come da tradizione del genere, tra combattenti in mischia, curatori/maghi o attaccanti a distanza.
Direttamente da I Am Setsuna tornano le sprintnite, rari artefatti spesso nascosti nel mondo gioco in grado di insegnare tecniche e abilità una volta equipaggiati, indispensabili in battaglia. Ogni tecnica ha un cooldown, ovvero un numero di turni di recupero una volta utilizzata prima di poter essere evocata nuovamente.
E direttamente da I Am Setsuna ritorna il colpo momentum, un attacco speciale che diventa disponibile dopo aver effettuato o subito una certa quantità di danno e permette, con il giusto tempismo e la pressione del tasto Y, di infliggere una quantità di danni maggiorata.

Una grande novità è rappresentata dai volcosuit, degli esoscheletri robot al nostro servizio, in grado di rivelarsi utilissimi e devastanti in battaglia. Evocabili in qualsiasi momento e dotati di tecniche esclusive, il loro utilizzo agevola la progressione ma non sbilancia troppo il livello di difficoltà dell’avventura, dato che ogni attacco consuma dei punti potenza, ricaricabili solamente dormendo in una locanda. Il livello di difficoltà complessivo è bilanciato e non frustrante, anche se alcuni boss richiedono comunque una certa preparazione e un pochino di grinding, facilitato dall’assenza di incontri casuali. Ogni nemico è visibile sulla mappa e per affrontarlo nuovamente basta uscire e rientrare dall’area di gioco.
Per costruire i ricordi, Kanata utilizza i frammenti di memoria. Le memorie legate alla trama principale si ottengono interagendo con persone, testi o luoghi che possiedono un ricordo del mondo o dell’area scomparsa. Inoltre, nel mondo di trovano una grande quantità di ricordi secondari legati a sub-quest, sparsi praticamente ovunque nel mondo di gioco e ottenibili come premi da forzieri o nemici, divisi per rarità e a seconda del numero posseduto, permettono di costruire edifici chiamati artifacts nella World Map.
Ogni edificio garantisce dei bonus alle statistiche dei personaggi e la sua costruzione libera una grande porzione della mappa permettendo di proseguire nell’avventura e di accedere a nuove strade. Il numero di artifacts edificabili è limitato e scegliere attentamente cosa costruire significa scegliere quali bonus utilizzare.
Costruire una memoria, recuperare un ricordo e restituire la vita garantisce grande soddisfazione, merito di una storia e di personaggi ben costruiti e caratterizzati, per quanto poco originali.
La nostalgia di un’era passata si esprime, oltre che sul piano narrativo e del gameplay, anche sotto il profilo tecnico e sonoro. La visuale dall’alto, l’assenza totale di filmati in computer grafica, i modelli poligonali morbidissimi e super-deformed, lo stile visivo degli ambienti di gioco e la regia, ogni cosa grida al passato.
Un passato in cui non facevano la differenza i QTE e la spettacolarità, la voglia di stupire per prima cosa tecnicamente, dimenticando la componente narrativa, un passato in cui si guardava principalmente ai contenuti, in cui i limiti tecnici costringevano gli sviluppatori a spingere dal punto di vista emozionale e per farlo, bastano anche un piccolo ammasso di poligoni, quasi inespressivi ma profondi e vivi, se ben caratterizzati.
Lost Sphear delizia visivamente con uno stile visivo e un mondo dai tratti morbidi e pastellosi, probabilmente meno poetico rispetto a quello di I Am Setsuna ma solido, ben costruito e dotato di una propria identità.
Notevole anche l’accompagnamento sonoro, con brani per lo più malinconici, vero e proprio sentimento guida del titolo. Una malinconia, fortunatamente positiva, capace di emozionare.
Tokyo RPG Factory conferma nuovamente di avere un grande talento, creando un seguito spirituale di I Am Setsuna che brilla nuovamente sotto il punto di vista stilistico e narrativo ed è, ancora una volta, un gioco che evocherà ricordi di un’era passata nei giocatori veterani. Una piccola perla che inizia lentamente ma si schiude e intrattiene lungo 25-30 ore di gioco per la main quest.
Un gioco che, proprio come il suo predecessore, ha l’unico grande difetto, forse, nel non saper proporre realmente niente di nuovo, nel non riuscire a innovare e spingere verso il futuro il proprio genere d’appartenenza. Un titolo comunque caldamente consigliato, di cui è difficile pentirsi se amanti degli rpg e, soprattutto, se avete vissuto l’epoca d’oro di Square-Enix, forse, non più così distante.