Come abbiamo avuto modo di parlare recentemente, uno dei punti centrali di the Legend of Zelda Tears of the Kingdom è l’interattività giocatore-ambiente e di come questa sia centrale nell’esperienza. Nel pezzo precedente ho affrontato la questione dal lato tecnico, sottolineando come il motore fisico di Tears of he Kingdom sia quanto di più raffinato si possa trovare attualmente sul mercato in un gioco mainstream.
Agisce da fattore wow in modo abbastanza potente, in quanto giochi che ne fanno uso estensivo di questa tecnologia sono principalmente di nicchia e quindi non formano il background collettivo del pubblico di Nintendo Switch.
Se questa interattività che porta a numerose possibilità da parte del giocatore di superare i vari ostacoli di gioco è onnipresente ed integrata nel design di tutte le sfide, la narrativa appare purtroppo enormemente statica e poco recipiente delle azioni del giocatore ed è un enorme peccato. Hai fatto 30, perché non fare 31? La cosa mi fa girare ancora di più gli zebedei perché questa volta c’era la possibilità di fare davvero qualcosa di organico, ma non è stato fatto.
Per forza di cose, dovrò parlare di cose che possono sfociare in spoiler, quindi la lettura è consigliata ai curiosi ed a chi ha già finito la narrativa principale.
Qual è il problema di creare una storia in un’ambientazione davvero Open World? Il giocatore è libero di andare dove vuole, quando vuole. Questo porta a poter trattare la narrativa in svariati modi, non sempre ottimali. Alcuni giochi adottano uno stile di narrativa comunque lineare. Questo crea una disconnessione tra gli elementi, non sempre riuscendo a trovare un equilibrio.
Altri usano una struttura con inizio e fine lineari per generare al meglio l’hook del gioco e la conclusione, lasciando il mezzo ad approccio libero, con missioni principali da seguire nell’ordine che si preferisce. Tanto Breath of the Wild quanto Tears of the Kingdom seguono questo approccio, con in aggiunta la possibilità di ignorare tutto ed andare direttamente dal boss finale.
La prima delusione che ho incontrato in Tears of the Kingdom è che segue pedissequamente la stessa macrostruttura di Breath of the Wild. Dopo l’inizio tutorial dove si acquisiscono le abilità che ci accompagneranno per tutto il gioco, si va nel mondo, dove ci viene data una prima indicazione. Che possiamo bellamente ignorare. In Breath of the Wild potevano recarci al villaggio Calbarico, mentre in Tears abbiamo il Forte di Guardia.
Qui ci vengono date altre informazioni, che ci spingeranno a dover andare nei quattro angoli del mondo per risolvere problemi locali. In Tears c’è come unica differenza una forzatura maggiore nel visitare questo villaggio iniziale. I vari NPC sparsi per il mondo inizieranno a nominarlo più spesso ed a consigliarla come meta qualora il giocatore l’abbia evitata completamente. Effettivamente ci guida meglio nelle basi del gioco e probabilmente volevano evitare giocatori troppo persi.

Narrativamente però Breath of the Wild era diretto. Lo spirito del re di Hyrule ci indicava il castello dicendoci: è lì che devi andare ma sarà difficile, meglio prepararsi. L’obiettivo è sempre stato chiaro fin da subito, tutto il resto era di contorno, approfondiva la lore dell’ambientazione ma non si aggiungeva al compito dell’eroe.
In Tears of the Kingdom la narrativa si presenta come investigativa. La principessa Zelda è sparita e bisogna capire che fine abbia fatto. Ci sono stati degli avvistamenti di una Zelda elusiva, legata a strani eventi per Hyrule. L’obiettivo è quindi qualcosa di molto più effimero e potenzialmente stratificato: informazioni. Ed è in questo passo che Tears of the Kingdom semplicemente non funziona.
Tears ha una reattività “micro” discreta. Se un NPC ci dice di andare in un luogo che già abbiamo visitato, la quest si concluderà automaticamente o procederà al prossimo step con eleganza. Se Link indossa alcuni vestiti o adopera alcuni oggetti nei modi e tempi corretti, personaggi possono fare commenti ad hoc. Ma è nella struttura macro che delude.
Creare una storia investigativa in un contesto open world non è affatto facile. Non lo è in generale, specialmente più la struttura data al giocatore di completare incarichi è ampia. Io stesso, nelle mie varie campagne di gioco di ruolo da tavolo mi sono scontrato con questo problema in termini di design. Se però in un gioco di ruolo cartaceo ho risorse mentali infinite per gestire gli intrecci e le permutazioni, in un videogioco mi devo scontrare con un budget che idealmente non deve essere sforato.
Ad oggi, c’è un esempio nello spazio tripla A di storia di tipo “raccolta informazioni” calata in un contesto open world. The Witcher 3. Esattamente come in Zelda, dopo l’inizio dobbiamo scoprire che fine abbia fatto Ciri ed abbiamo diversi punti dove indagare. Witcher 3 ha un sistema di livelli per la progressione del personaggio e le quest hanno un livello associato. Così la maggior parte dei giocatori sarà portato a seguire un percorso stabilito. Quel che si ottiene è che tanto Geralt quanto il giocatore ottengono informazioni secondo un ordine ed entrambi ragionano su quanto appreso. MA.
Come documentato dal video qui sopra, non c’è nulla che vieti di fare le missioni nell’ordine che uno vuole, anche completandone gli archi a sbalzi. Ed il gioco risponde a tutte queste permutazioni. Le informazioni ottenute informano i dialoghi dei personaggi. Il livello di permutazioni è notevole per un gioco completamente doppiato con livelli produttivi da tripla A. Il risultato è che le azioni del giocatore contano nella metanarrativa e c’è sempre congruenza tra quello che sanno i personaggi ed il giocatore.
The Witcher 3 riesce anche ad intrecciare informazioni tra la quest principale e le secondarie. E questo metodo di trasposizione di conoscenza tra le quest ritorna anche nei pacchetti DLC. Ovviamente è un gioco di ruolo, fa della sua progressione narrativa un punto centrale, Zelda è altro al cuore.
In Tears of the Kingdom le informazioni principali si ottengono tutte da una sola quest: la ricerca delle Lacrime di Drago. E qui forse si nota molto questa discrepanza di questo Zelda nel contemporaneamente darti libertà ma non gestire tutte le conseguenze che ci si aspetterebbe. Le visioni possono essere ottenute in ordine sparso. Quindi i giocatori possono acquisire conoscenza a ritmi diversi. L’ultima lacrima però viene sbloccata solo dopo aver raccolto tutte le precedenti. Ma, il giocatore può infischiarsene di tutto ciò ed andare a recuperare la ricompensa se ha già capito cosa sia.
Meccanicamente il gioco è quindi disaccoppiato dalla storia, appena il giocatore vuole fare qualcosa, può farlo. Però l’informazione non è un qualcosa di effimero, esiste ed è quantificabile. È stata data al giocatore. Il resto del gioco continua ad esistere come se queste informazioni non fossero arrivate a Link. Negli stallaggi le quest continuano ad a fare riferimento ad una possibile Zelda. Le quattro missioni primarie i personaggi continuano con gli stessi dubbi, con le stesse domande. Alle quali il giocatore e Link già sa la risposta. Ma il gioco no.

In quest’ottica si inseriscono brutalmente le cutscenes alla fine di ogni missione principale nelle quattro aree. Solo che, invece di darci come in Breath of the Wild uno scorcio sul passato specifico di quella zona, queste ripetono le stesse identiche informazioni. Per quattro volte. Mentre l’accompagnatore di Link sentirà queste affermazioni per la prima volta, Link ed il giocatore devono sorbirsi la spiegazione di nuovo.
Ed è questo uno dei motivi per il quale io, personalmente, non riesco ad ingaggiare con Tears of the Kingdom ad un livello superiore. Non riesco a dire “ma la narrativa e la sua reattività non importa perché posso costruire un pene che vola“. Allo stesso modo come non riesco a farmi piacere gli Octopath Traveler perché non integrano il party nelle storie dei singoli. È una discrepanza tra la storia ed il gameplay troppo forte, troppo evidente. In Zelda ho questa rottura semplicemente perché una parte del gioco è eccessivamente interattiva rispetto all’altra ed applicare due livelli diversi di sospensione dell’incredulità diventa difficile.
Soprattutto quando negli anni è lato gameplay che abbiamo accettato molti più limiti ed imposizioni rispetto a quelli narrativi.
Ultime due note a margine. Per fortuna ci sono sviluppatori che cercano di muovere entrambi i livelli insieme, creando un insieme molto più coeso di quello risultante tra i due The Legend of Zelda, ma incapsulati all’interno di un altro genere: quello dei GDR Isometrici. Quindi si, questo post è tutta una scusa per elogiare i Larian Studios ancora una volta. Ma anche un po’ a Nintendo, perché Majora’s Mask non credo di averlo giocato solo io.
Seconda: mentre stendevo questo articolo capita a fagiolissimo un video di Ben “Yahtzee” Croshaw, che centra appieno una questione molto spinosa sui discorsi intorno a Breath of the Wild e Tears of the Kingdom. E preferisco finire con un collegamento al suo video perché sa essere molto più pungente di me.