Ritorno al futuro che non c’è mai stato
Confesso: dopo le prime immagini dei trailer promozionali stavo così sotto al concept di Narita Boy che mi sono andato a spulciare pure la demo di Steam. Ero uscito da quella mezz’ora di demo con acquolina in bocca dovuta principalmente all’art direction, che mi ha subito riportato a quegli anni ’80 di cui sono figlio, a una non linearità che non era per niente scontata e ad una soundtrack rubata e sapientemente rielaborata da artisti come Daft Punk e in generale ispirata al French Touch: la ciliegina sulla torta sembrava poi essere il combat system, apparentemente non proibitivo ma comunque scenico. Se volete della musica ad accompagnare questo mio enorme sproloquio, inserite l’audiocassetta sotto forma del link di seguito e schiacciate play.
Narita Boy mi ha diviso. Ho dovuto guardarlo con due lenti applicate agli stessi occhiali. La prima, quella di amante degli “eighties” e della cultura pop degli anni ’80 in generale; la seconda quella di Dr. Backlog, amante e consumatore del mondo degli indie games (se volete un assaggio ecco l’ultima puntata della Indie Hit Parade) in ogni sua forma, alla ricerca di un gameplay valido al di là della pura estetica retrò.
Quale delle due anime ha prevalso? Intanto mettiamo gli occhiali a tendina, possibilmente con qualche bel led multicolore e vediamo a quali lavori si rifà l’estetica di Narita Boy.
L’inception della citazione
Depone sicuramente a favore del gioco, il fatto che possiate godervelo anche senza comprenderne gli infiniti riferimenti, dato che Fornieles (l’autore) ha dichiarato di voler creare qualcosa che trasudasse il linguaggio dei cabinati e dei VHS e potesse collegare giocatori passati, presenti e futuri in un unica opera avente come incipit proprio le sensazioni di ricordo proustiano dell’autore fanciullo.
La prima e omnicomprensiva citazione è quella di Tron (1982) e Tron: Legacy (2010). I riferimenti ai due lungometraggi sono sia cromatici che di banale intreccio: il computer che digitalizza e scompone Flynn è speculare a Narita One che risucchia Narita Boy nel gioco; il rapporto padre/figlio di Tron: Legacy che è simile a quello tra il fanciullo e il creatore nel lavoro di Studio Koba.
Oltre a questi, non si può non citare (come ha fatto lo stesso Fornieles) il film The Last Starfighter del 1984 (in Italia uscito con il titolo “Giochi Stellari”), in cui la bravura del protagonista nei videogiochi non è altro che un metro di selezione attraverso cui un misterioso personaggio di nome Centauri lo recluta come pilota di caccia per difendere la galassia. Inutile non vedere come questo abbia ispirato la recente serie televisiva Future Man (2017) che ha quasi lo stesso pretesto narrativo del predetto film.
Ma la mia memoria marchiata con vari imprinting durante quegli anni ha captato ben altri stimoli.
L’immagine di copertina di Narita Boy richiama quel pezzo di storia dell’animazione che risponde al nome di He-Man.
La Techno-Sword di Narita Boy è sguainata al cielo come la Spada del Potere di He-Man e Fornieles ha confermato anche in altre parti del suo lavoro che il biondo cavaliere di Grayskull sia stato materia di studio: pensate ad esempio, quando nel gioco vi imbatterete nel SERVO-HORSE che cita il timido e simpaticissimo BATTLE-CAT dei Masters of the Universe.

In realtà, se vogliamo andare a ritroso non possiamo non annoverare anche la locandina di Star Wars: Episodio IV- Una nuova speranza (1977) come calco quasi perfetto di quell’immagine di sollevamento di una nuova Excalibur e del rapporto edipico padre-figlio.

Per continuare il nostro excursus, non possiamo non vedere come l’auto del Creatore/padre di Narita Boy sia una replica di quella DeLorean che conosciamo dai film Ritorno al Futuro (1985) e chi avrà il coraggio e la voglia di terminare l’avventura, scoprirà anche che la frase “dove stiamo andando non c’è bisogno di strade” è stata perfettamente ricontestualizzata nel gioco (probabilmente suggerendo un sequel).

Invece, secondo l’autore del gioco, se dallo schermo piccolo e grande ci spostiamo sulla Decima Arte, uno dei titoli citati come fonte è Superbrothers: Sword & Sworcery EP: nato e cresciuto su IOS, come vera e propria perla delle avventure a base di pixel sui cellulari, è adesso disponibile anche su Nintendo Switch. Entrambi i giochi riescono a non rendere la pixel-art fine a se stessa, ma meravigliosamente funzionale a creare dei ricordi e dei luoghi perfettamente distinti e caratterizzati: insomma, nella loro mole contenuta donano più fotografie mentali di quanto siano riusciti a fare alcuni tripla A.
Potrei citarvi ancora i robottoni e un certo gusto per l’horror di matrice asiatica, soprattutto nei boss e nella fase del gioco in cui si esplorano i ricordi del creatore, ma forse è il caso che mi tolga la lente del giovane-vecchio nato nel 1984 e inforchi quella dell’indie-lover.
Dove si colloca Narita Boy, nel panorama degli indie odierni?
Purtroppo sono nato negli anni’80 e sono cresciuto con l’idea che il futuro tanto decantato nei summenzionati esempi di testo filmico e d’animazione sarebbe stato lì…a 20 anni di distanza. Nel 20XX avremmo potuto viaggiare nel tempo e nello spazio. Nel 20xx le macchine avrebbero volato. (Prima che me lo diciate, si…lo so che esiste un ottimo gioco indie per Nintendo Switch di nome 20XX e pure l’altro, quello che si chiama 198X).
Questo ovviamente non è accaduto e quindi la mia generazione si porta dietro una punta di delusione e mestizia, insieme a tanta nostalgia di un futuro che non c’è mai stato. Ho trovato la consolazione in quella sensazione all’interno del computer, all’interno dei giochi che mi donano proprio quell’ingenuità che non ho più…ma ho anche imparato a volere di più.
Getto gli occhiali a tendina: da Narita Boy volevo un po’ di più! Come indie risulta essere ispiratissimo (l’abbiamo detto finora) a livello di direzione artistica, e riesce a non riutilizzare i medesimi asset (soprattutto a livello di location e ambientazione) quasi mai, se non nella parte terminale (come ha evidenziato anche la recensione del buon Damiano, che vi consiglio di leggere attentamente). Il gioco è breve rispetto ai migliori action-platformer, ma è intensissimo e pieno di stimoli.
Purtroppo però a livello di gameplay ho riscontrato un platforming non accuratissimo e a tratti frustrante in un titolo che non ha bisogno di esserlo (non è e non vuole essere Super Meat Boy o Celeste, non è il platforming la meccanica principale) ed un combat-system che ricalca idee già viste ed inserisce delle meccaniche che è totalmente possibile ignorare al fine del completamento del titolo.
A prima vista l’utilizzo dei vari attacchi basati sui tre colori del “trichroma” mi ha ricordato tantissimo Guacamelee e il suo sequel Guacamelee 2. In Guacamelee alcuni personaggi sono forniti di uno scudo di colore diverso e questo vi costringe ad utilizzare le mosse corrispondenti, ma il tutto è perfettamente funzionale sia al combattimento che al raggiungimento di nuove aree (dato che Guacamelee è anche un metroidvania).
Narita Boy a un certo punto del gioco introduce l‘ottenimento di attacchi coadiuvati dal potere dai tre colori del Trichroma: potrete attivare il colore corrispondente per distruggere rapidamente i nemici recanti una fiammella colorata (e subire più danni dagli stessi), ma oltre a essere scomodissimo (bisogna premere la croce direzionale del pad prima di iniziare a picchiare) risulta completamente sorvolabile, poiché è possibile quasi dimenticarlo e finire tutti i vari nemici rapidamente anche con attacchi normali.
Siamo comunque di fronte a uno dei giochi indie più riconoscibili ed esteticamente godibili dell’anno, ma ben lontani dai fasti dell’olimpo dei mostri sacri dell’indie gaming. In definitiva, avrei voluto che sotto la scocca al neon ci fosse un gioco ancorato al passato, ma che prendesse un aspetto retrò e le migliorasse con idee del futuro, così che almeno in questo titolo non rimanessi ancorato a quel “futuro che non c’è”.
Godetevi Narita Boy e fatemi sapere quali altre citazioni non ho colto: la mia speranza è nel sequel…perché c’è troppa carne per non darle degli innesti cibernetici “migliorati” in un seguito che mi faccia sentire il futuro.