Ma stiamo scherzando?
Partiamo a razzo, senza giri di parole: l’ultima fatica di Swery non doveva essere pubblicata in quel modo. La forma in cui Deadly Premonition 2: A Blessing in Disguise è stato presentato sugli scaffali è inaccettabile qualitativamente, irrispettosa nei confronti dei soldi del cliente (50€ ragazzi!) e evidentemente incompleta per ciò che concerne struttura e contenuti. L’errore da parte di Rising Star Games è evidente e non si può sorvolare.
Il gioco non è gradevole da vedere, in particolare negli ambienti esterni: a causa di un livello di dettaglio estremamente basso e del framerate impresentabile (quasi sempre sotto i 20 e spesso sotto i 10 frame al secondo nella versione vanilla), viene preclusa la normale fruizione di una fetta consistente del titolo, ovvero gli elementi sandbox. Ben presto passa la voglia di dedicare tempo a tutto ciò che non sia trama principale.
E anche quando pensiamo che tutto sommato le cose stiano andando bene c’è ben poco da stare allegri, in particolare a causa dei caricamenti letargici e di glitch e bug capaci di mettere a rischio i nostri save.
In sintesi, si tratta di un prodotto impresentabile secondo canoni comuni.

Se dopo questo cappello introduttivo siete ancora qui, bene. Siete verosimilmente interessati a tutto ciò che non concerne l’aspetto tecnico e ve ne faccio onore, ma non per questo dovreste ignorare quanto scritto in precedenza. Uomo avvisato, ora proseguiamo.
Va necessariamente ricordato che Deadly Premonition 2: A Blessing in Disguise è legato a doppia mandata al primo capitolo, quel Deadly Premonition uscito ormai 10 anni fa su Xbox 360 e riapparso in versione riveduta e corretta su Nintendo Switch lo scorso settembre accompagnato dal suffisso “Origins“.
Per quanto la capacità di Swery di creare contesti e personaggi interessanti sia in grado di fornire un’esperienza comunque intrigante anche ai neofiti, stiamo letteralmente parlando di un titolo che fa sia da prequel che da sequel all’originale, costantemente impegnato nel farci l’occhiolino affinché ci si accorga di citazioni e riferimenti. Si può provare a far finta di niente e, nella fase iniziale, rimettere insieme i pezzi seguendo le indagini in corso, ma nella seconda metà del gioco è davvero indispensabile avere chiaro quanto successo per godere appieno degli eventi.
Wow, una recensione di premesse in pratica… quando parleremo del gioco? Eppure l’ho scritto nel titolo: questa è una recensione davvero brutta, a cui riserverò il medesimo trattamento di cui ha goduto Deadly Premonition 2: A Blessing in Disguise – alti e bassi in un contesto deficitario.

Ciò che ci viene proposto dovrebbe rappresentare una sorta di “thriller”, un misterioso titolo in cui far valere la nostra capacità di detective nel coadiuvare il protagonista, Francis York Morgan.
Nell’estate del 2005 il giovane agente dell’FBI si ritrova invischiato nelle indagini di un efferato omicidio per puro caso, approdando nell’apparentemente tranquilla cittadina di La Carré (Lousiana) al solo scopo di visitare i luoghi che hanno fatto da teatro per alcuni dei suoi film preferiti. Vacanza o meno, è impossibile ignorare il misfatto: ben presto ci troveremo quindi a seguire le tracce legate all’omicidio di Lise Clarkson, giovane erede della famiglia più potente del paese.
I bizzarri e a tratti incomprensibili eventi che seguono vengono riportati alla luce dagli agenti Aaliyah Davis e Simon Jones ben 14 anni dopo, quando viene ritrovato il corpo di Lise in una teca di ghiaccio: i rapporti che York fece al tempo contengono troppe stranezze e abbondano di superficialità per non destare sospetti in chi dedica la propria vita a guardare oltre l’ovvio, in particolare pensando anche a quanto avvenuto 5 anni dopo a Greenvale (vedi Deadly Premonition Origins).
Da qui ha inizio un viaggio tra presente e passato per trovare l’assassino e capire una volta per tutte se Francis Zach Morgan, ormai ritiratosi a causa di una grave malattia, sia in qualche modo coinvolto negli stessi omicidi che hanno costellato di successi la sua carriera investigativa.

Indipendentemente dal numero di misteri e di detective presenti nel gioco, la struttura che ci ospiterà per circa 20/25 ore è quella di una classica avventura story-driven, costellata di piccoli task di varia natura (collectathon, esplorazione, farming, etc.) che difficilmente metteranno alla prova il nostro intelletto. Magari un paio di intuizioni, una buona pianificazione di risorse e tempo, per chiudere il tutto con della sana azione a tinte horror.
Il reale traino di questo titolo si ritrova tutto nella scrittura, che in questa occasione riconferma l’innamoramento di Swery per il proprio eroe, al punto di deviare prepotentemente dalla tipologia di narrazione che tanto piacque nel 2010. Laddove veniva data forma ad una storia con tanti personaggi centrali che spesso si concedevano spazio in assenza del protagonista e portavano avanti gli eventi autonomamente, in questa occasione tutti i simpatici comprimari sono parte del playground a disposizione di York, utili principalmente a generare situazioni ad effetto che mettono alla prova capacità e fibra morale del protagonista.
Si abbandona quindi la stranezza come elemento occasionalmente disturbante all’interno di contesti credibili per costruire un mondo in cui l’eccentricità è all’ordine del giorno, consentendo a York di esercitare la propria caricaturalità di eroe al contrario nel modo più efficace possibile.

Affrontato come bizzarra avventura a metà strada tra la sit-com e il soprannaturale, Deadly Premonition 2 può offrire davvero tanto al giocatore: York si riconferma uno dei personaggi più esilaranti della storia del videogioco, sia nel modo di esprimersi che di relazionarsi con gli NPC, e diventa letteralmente irresistibile quando si perde nei suoi monologhi rivolti a Zach. Durante i nostri spostamenti sullo skateboard – il mezzo più veloce per muoversi senza fast travel – spesso si produrrà in digressioni più o meno rilevanti per la trama che, pur ricadendo molto facilmente nella ripetitività, spesso offrono spunti originalissimi, pescando a piene mani dalla cultura cinematografica a cavallo degli anni 2000.
A bilanciare la strabordante personalità di York troviamo il disilluso cinismo della piccola Patricia Woods, figlia dello sceriffo della città che in modo fortuito (o voluto dal destino?) creerà un forte legame col nostro detective facendogli da guida cittadina e assistente nelle indagini.
Pur non volendo sembrare troppo severo, il resto del cast è decisamente sottotono per carisma rispetto al nucleo attorno a cui ruotano gli eventi e tendenzialmente brilla solo in situazioni specifiche per poi finire nel dimenticatoio.

L’esperienza vissuta nel complesso è stata piuttosto bizzarra, alternandosi tra affascinanti situazioni e logoranti limiti tecnici o di design (“THE LORD HUNGEEEERS!” (cit.)). Non è però mai mancata la voglia di vedere cosa ci fosse dopo, di scoprire i segreti, di capire cosa si nascondesse dietro il personaggio che in quel momento rappresentava il nostro obiettivo o rivale.
La storia è genuina, non necessariamente originalissima, e ricca di personalità. Abbraccia il supernaturale in modo meno pratico rispetto al predecessore, lasciando forti dubbi sulla concretezza di cosa vediamo ma offrendo interessanti spunti in relazione al conflitto, il sacrificio e la rinascita.
Quello che si può rimproverare è l’eccessiva semplicità e ripetitività degli elementi messi in causa, segno evidente dei tempi ristretti con cui si è trovato ad avare a che fare il team. Ritroviamo anche una certa disconnessione tra le situazioni presentate, con un gameplay frammentato e saltuariamente incoerente, e l’imprevedibilità (in negativo) nella gestione della progressione: in aggiunta ai limiti tecnici esposti in apertura, tutto questo può rappresentare un grosso muro che ci separa dalla positiva fruizione del gioco.

Difficile consigliare l’acquisto di Deadly Premonition 2: A Blessing in Disguise: l’unica utenza a cui è possibile ricondurre una simile produzione è quella affascinata dall’esperimento, dalla esibizione autoriale a briglie sciolte e dal “semi-trash” nipponico che non sempre apprezziamo in occidente ma che consente spesso di scoprire opere uniche che si esprimono oltre le categorizzazioni canoniche.
Di recente il gioco ha goduto di un aggiornamento che attenua (senza risolverli del tutto, sia chiaro) i problemi tecnici già citati e che al tempo stesso interviene su alcune linee di dialogo ritenute poco delicate nei confronti della comunità transgender, in pratica alterando leggermente quella che era la visione originale in modo comunque indolore.
Detto questo, rimangono le perplessità in merito ad una produzione che vive dell’idealizzazione del predecessore e che mai potrà ricreare il medesimo effetto “shock” che fece la fortuna del titolo del 2010. Un gioco semplice ma strano, intelligente ma ingenuo, curato ma zoppicante. C’è del buono, ma bisogna rischiare l’acquisto per scoprire se si addice alle nostre corde: ne varrà la pena per tutti?