Wonder Boy: The Dragon’s Trap – Recensione
“In un gioco, non penso che servano molte parole per definire gli obiettivi del protagonista o il mondo di gioco, deve essere piuttosto l’immaginazione del giocatore a dare loro spessore.”
Così, in un’intervista del 2012, affermava Ryuichi Nishizawa, creatore della serie Monster World, e questa sua pillola di saggezza è percepibile in ogni sua produzione. Così Wonder Boy: The Dragon’s Trap, remake dell’originale classe ‘89, getta il giocatore nella mischia senza colpo ferire, ricollegandosi al finale di Wonder Boy in Monster Land, di cui Dragon’s Trap è seguito diretto, così tanto da riprendere il filo del discorso proprio dal finale di quel titolo.
Il nostro Hu-Man affronterà una versione molto (ma molto, ma molto…) semplificata dell’ultima porzione di Monster Land, e affronterà il Meka-Dragon. Lo scontro però avrà una conseguenza inattesa: il nostro protagonista verrà maledetto e si ritroverà nei panni di un Uomo-Lucertola.
The Dragon’s Trap è un gioco di piattaforme con elementi GDR figlio dei suoi tempi e il lavoro svolto da Lizard Cube è encomiabile nel recuperare, tirare a lucido e valorizzare il gioco nella sua interezza. Remake, rifacimento, restauro e qualsiasi altro sostantivo intendiate utilizzare per definire il loro sforzo è riduttivo, perché si tratta di uno sforzo (anche) fortemente artistico. Wonder Boy: The Dragon’s Trap è uno splendore da vedere, ascoltare e giocare, e si pone un gradino sopra altre operazioni commerciali di questo genere.
I bellissimi disegni a mano di Ben Fiquet sono uno spettacolo visivo e lo schermo di Switch ne valorizza al meglio i colori saturi e vibranti, e le animazioni degne di un cartone animato. Omar Cornut invece ha recuperato i dati originali, creando anche software appositamente pensati, per avere una visione completa del materiale di origine e di come funzionasse. I box di collisione, il calcolo dei danni, gli algoritmi che regolano la caduta degli oggetti e tanta altra matematica che mettiamo da parte quando viviamo i videogiochi formano un corpus di leggi imprescindibile per il mantenimento della formula originale.

Un lavoro tanto certosino e dispendioso che forse sarebbe stato più semplice ricostruire tutto da zero e cercare la fedeltà all’originale andando a braccio, rischiando però di allontanarsi dalla formula perfetta. Perché Wonder Boy in Monster Land e seguito, al netto di una fama e di un successo minore di quanto avrebbe meritato nel tempo, sono l’espressione più felice del genere ibrido Platform/RPG, e The Dragon’s Trap è probabilmente il miglior gioco in assoluto su SEGA Master System. In parole povere, giocando al nuovo The Dragon’s Trap abbiamo un’esperienza assolutamente fedelissima all’originale, tanto che Lizard Cube ha pensato di permettere in qualsiasi momento la transizione con l’originale tramite la semplice pressione di un tasto, in maniera dinamica anche. Infatti è possibile non solo giocare l’originale con la sua grafica e musiche di derivazione 8 bit, ma anche poter mixare i comparti, giocando ad esempio con la grafica rinnovata e il sonoro originale.

Il rispetto per il materiale di partenza è fedelissimo anche per quanto riguarda il sonoro. Le musiche create da Michel Geyre reinventano i temi originali di Shinichi Sakamoto in maniera sontuosa, elegante, e completamente acustica, grazie a un corposo ensemble di musicisti. A volte l’arrangiamento risulta forse troppo pomposo per un’avventura così diretta e fluida come Wonder Boy, e allora il consiglio è di passare alle composizioni originali di Sakamoto, per magari poi tornare ai nuovi arrangiamenti. Questo risolve forse il problema ab origine della ripetitività delle musiche originali, orecchiabilissime, certo ma non numerose. La cura per l’aspetto sonoro è completata da effetti sonori completamente nuovi o ripensati sulla base degli originali da Romain Gauthier, nel rispetto delle ambientazioni e delle situazioni di gioco.
Standard davvero alti per una produzione indie e ineccepibili sia dal punto di vista formale del rispetto della fonte, sia dal lato più concreto della proposta di un gioco che sembri nuovo, pur non essendolo. Quando però Westone ha pensato, ideato e realizzato questa bellissima fatica, il concept non era privo di novità. Contrariamente a Wonder Boy in Monster Land, pensato dapprima come arcade e solo in seguito convertito per le console da casa, Wonder Boy: The Dragon’s Trap ha tutt’altro respiro per complessità. Il cambiamento di target da giocatore casuale da sala a giocatore da casa, ha permesso a Ryuichi Nishizawa di pensare a quello che oggi potremmo definire un open-world-platform, con un hub centrale che rimanda a luoghi visitabili a discrezione del giocatore. Ovviamente non tutti i luoghi sono percorribili in fondo fin da subito, alcuni richiedono il possesso di una determinata spada o di un’altra forma del protagonista. Infatti, il nostro lucertolone spara-fuoco dovrà sconfiggere altri Dragoni che lo malediranno trasformandolo (not again!) in un’altra creatura, ognuna con le sue caratteristiche.

Il topo ad esempio può sfruttare i blocchi a scacchi per arrivare in punti prima inaccessibili, il piranha può nuotare (mentre gli altri personaggi possono solo camminare sul fondo), il leone può eseguire fendenti che colpiscono oggetti e nemici verso l’alto e il basso e il falco, infine, può volare (ma è idrofobo, occhio!). Gli elementi RPG non prevedono il classico sistema a punti esperienza, ma i nemici lasceranno monete con le quali acquistare armature e armi, anche queste con le loro caratteristiche e abilità, ed è possibile aumentare la propria energia vitale, qui sotto forma di cuori. Parametro invece più aleatorio, il carisma, indispensabile per ottenere determinate armi dai negozianti. Probabilmente la saga di Monster World andrebbe studiata nelle scuole di game design, non solo in quanto a brillantezza di esecuzione, ma anche per poter approfondire l’alone di mistero che circonda certi titoli, più frequente in passato (non me ne vogliano i lettori se elogio il retrogame dopo averlo maltrattato), un mistero che è l’arte di tenere vivo l’interesse del giocatore per tutta la durata del gioco.
La voglia di scoprire porte segrete, di tornare in luoghi già visitati ma solo parzialmente, di confrontare se stessi alle prese con i pattern di movimento e di attacco dei nemici, di mettere alla prova la propria pazienza con salti millimetrici ed esecuzioni di azioni complesse, in schemi non leggibili di primo acchito, la sensazione di essere ricompensati dopo aver sconfitto un boss, anzi di più, di essere più potenti, tutto questo insieme signori miei non è solo game design, è alchimia. Arte e magia allo stesso tempo, pur essendo scienza esatta.

La difficoltà non è accomodante, anche se ci sono tre livelli di difficoltà tra cui scegliere, il normal mode vi impegnerà già abbastanza in certi frangenti. Il problema non è solo una difficoltà oggettiva, ma anche una particolare avarizia, a volte, nel rilascio di cuori per guarire, unita alla difficoltà magari nel reperire armi più adatte a determinati nemici (le statistiche di arma e armatura cambiano anche a seconda del personaggio che lo indossa), acquistabili a cifre a volte alte dal mitico maiale guercio fumatore. Ci sono pozioni che evitano il game over, riempiendo l’energia, ma anche queste non sono facilmente reperibili. Certo se fossero state acquistabili in ogni occasione avrebbero sbilanciato il gioco, smorzando l’attenzione, che così rimane sempre alta fino alla conclusione. Che siate ripagati o meno nel confidare nella vostra abilità, non darete mai la colpa al gioco, ma a voi stessi, tanto per tornare a parlare di equilibri di game design. Che giochiate con i joycon o con il Pro Controller, infatti, i controlli permettono una precisione chirurgica (sì, anche con gli analogici) e il codice come una guardia inglese, non si muove di un millimetro ed esegue ogni pattern come ci si aspetti. Questo da una parte è incoraggiante perché fomenta l’impegno a migliorarsi e a memorizzare il necessario, dall’altro potrebbe spingervi a grindare, facendo avanti e indietro da uno scenario all’altro solo per poter aumentare gli oggetti secondari e le monete.

Gli oggetti secondari sono vari e tutti utili, anche se consumabili: la freccia permette di colpire in verticale, la palla di fuoco e il turbine permettono un attacco frontale a distanza, così il boomerang che rimane se acchiappato appena torna indietro (e il cui ottenimento vi farà scoppiare di gioia infatti, soprattutto nelle prime fasi). In ogni caso non esistono vere e proprie scorciatoie e la chiave di volta risiede sempre nell’esplorazione, tanta e mai noiosa, e nell’esperienza del giocatore. Monster Boy: The Dragon’s Trap è l’esempio perfetto di come deve essere eseguito un remake: la qualità dell’originale non è solo intonsa, ma arricchita con una cosmesi eccezionale al passo coi tempi e modifiche strutturali minime. Gli unici difetti, infatti, sono ascrivibili alla struttura originaria del titolo: essendo la struttura dei livelli aperta, la difficoltà varia a seconda della zona visitata, e manca un senso di coerenza nella progressione, difetto tipico di un approccio così liberale, appunto, così come la filosofia di Nishizawa-sama si trasforma in una pochezza di indizi e nella fiducia nell’immaginario e nelle capacità del giocatore, che appunto può variare in quanto si tratta di percezioni personali. Altro piccolo appunto, i boss sono ben differenziati nell’aspetto e nei pattern d’attacco ma non nel punto debole.

Nonostante queste marginali, o comunque risolvibili con un po’ di elasticità mentale, asperità è impossibile non segnalare The Wonder Boy: The Dragon’s Trap come un esperimento riuscito, grazie non solo alla bontà della fonte ma anche alla dedizione del team che ha attualizzato un gioco che non meritava di finire nel dimenticatoio. Collocando temporalmente questo prodotto non posso che augurare una maggior fortuna a The Dragon’s Trap, perché nel 1989 usciva per una console a 8 bit che iniziava a sparire nella sfera dell’interesse degli appassionati, mentre oggi fiorisce (anche) su una console appena nata, le cui caratteristiche, schermo brillante e portatilità soprattutto, ne esalta la peculiarità di essere un titolo bello da vedere, divertente da giocare e fondamentale nel background di ogni giocatore.