Siamo tutti Guybrush Threepwood
Quello che non vi dicono mai prima di una recensione è il bias cognitivo di chi l’ha scritta, strumento senz’altro utile per capire se il recensore ha un’eccessiva stima verso il gioco analizzato o meno. Certo, a volte trovate un box informativo sull’autore, che nel 1998 ha provveduto goffamente a segnalare alcune delle sue opere preferite in quattro (se non tre) righe striminzite, cristallizzato nel tempo come se la natura umana stessa non fosse quella del mutamento, dell’evoluzione (si spera), del divenir altro. Generalmente se il gravatar contiene uno sprite 4x4px sapete già che le info sono poco affidabili.
Come è una certezza che tutte le strade portano a Roma, tutte le recensioni mai scritte nel tempo di Return to Monkey Island, ultima fatica degli immortali (o almeno io mi illudo che geni del genere non possano mai lasciarci, e chi lo sa, c’è sempre una prima volta e mai come in questo caso bisogna escludere il ritorno) Ron Gilbert, Dave Grossman e della loro crew Terrible Toybox, hanno fatto, fanno e faranno mostra di un amore incondizionato verso la serie. E qui non troverete nulla di diverso. Perché anche io sono un vecchiardo che metteva uno dei quattro floppy disk di The Secret of Monkey Island nel suo fido Amiga e si lasciava trasportare in quel mondo un po’ troppo mitizzato dei pirati (una cosa su cui si fa ironia sovente nella serie) a suon di enigmi surreali ma sfidanti e gag comiche memorabili.
Siccome poi l’essere umano si è evoluto nel tempo, ma non ancora abbastanza, non è raro che l’amore incondizionato si trasformi senza colpo ferire in tossicità. Lo stesso Ron Gilbert è arrivato alla conclusione che chiudere il blog avrebbe risparmiato crampi allo stomaco a tutti coloro i quali avevano lavorato duramente al progetto. Le critiche espresse su ben 57 secondi di reveal trailer senza traccia alcuna di gameplay, adesso (seguendo l’affermazione sull’evoluzione di cui sopra) dovrebbero suonare come una lezione di vita su quanto si può essere, anche inconsapevolmente, degli stronzi irrispettosi di tutto, anche verso qualcosa che si ama, ora che tutti stanno glorificando il ritorno sull’isola delle Scimmie.
E dato che ho un altro colpo in canna, faccio fuoco: Ron Gilbert probabilmente in quei giorni avrà risposto al citofono. Erano Shigeru Miyamoto ed Eiji Aonuma, uno aveva in mano un Nintendo Gamecube con dentro Wind Waker, l’altro una pinta di bevanda schiumante e hanno gridato in coro “HOLD OUR BEER!”. Ma ho scelto di proposito di non diventare uno stand up comedian, di cui apprezzo la possibilità di esprimersi liberamente ma non le condizioni precarie di forte indigenza, preferendo scrivere di videogiochi su NintendOn, per cui passiamo al gioco.
Dove ci eravamo lasciati? È una bella domanda, perché la serie Monkey Island è proseguita senza i suoi padri putativi, tra alti e bassi (ma mai drammaticamente bassi c’è da dire). Questo gioco mette in chiaro le cose: sebbene Ron Gilbert mostri un gran rispetto per tutto ciò che è venuto dopo, la serie canonica è composta da The Secret of Monkey Island, Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge e quest’ultima iterazione. E questo risponde alla prima delle vostre domande: non è consigliabile giocare Return to Monkey Island senza che i personaggi e gli eventi dei suoi predecessori siano fissati nel vostro bagaglio culturale, non tanto perché la trama sia meno comprensibile altrimenti, bensì per l’impossibilità di cogliere la montagna di citazioni, rimandi e battute a elementi distintivi della serie.
C’è un “album dei ricordi” che riepiloga un po’ le cose, in maniera assolutamente stilosa tra l’altro, ma molte cose vengono tralasciate e ovviamente “non è la stessa cosa”. E va da sé che mi dispiace usare termini elitari o dire robe tipo “non sei un videogiocatore se non hai giocato x e y”, ma per quel che riguarda i primi due Monkey Island devo dire che effettivamente siamo davanti a giochi che definiscono un genere, e il genere non è “avventura grafica” ma “videogioco”. Ci siamo intesi. Poi i gusti sono gusti, ma in quel caso è anche inutile avvicinarsi a questo Return to Monkey Island. Se non per tematiche, proprio per il genere e le sue caratteristiche.
Lungi da me infatti rovinarvi il piacere della scoperta: non farò riferimento alcuno a quanto le 5 parti di questo gioco contengono in termini di trama, sarei veramente un maledetto se lo facessi, e con Monkey Island le maledizioni sono proprio dietro l’angolo. In termini di meccanismi posso invece tranquillamente dirvi che se la vostra paura è di dovervi adattare alla legnosità di un sistema desueto di gestione inventario e input azioni tipico delle vetuste avventure grafiche LucasFilm Games (o perché no, del più recente capolavoro del maestro Ron Gilbert Thimbleweed Park), sappiate che una rapida occhiata agli screen che contornano queste scritte bastano già a scacciar via ogni remora.
Via la classica griglia dei verbi, in favore di una navigazione tra i punti interessanti nella scena, già posti in rilievo quando Guybrush Threepwood (quanto ho sperato di scrivere questo nome in una recensione!) è nelle vicinanze, e ridotte a due le azioni possibili: una principale che può cambiare a seconda dell’oggetto con cui si va a interagire, e l’altra per esaminare. Questo rende più fluido tutto ed è più onesto verso il giocatore.
Nel caso siate neofiti oppure veterani ma un po’ arrugginiti, ci sono altri accorgimenti che potrebbero fare al caso vostro. Il primo è scegliere anziché la modalità difficile (in tutto e per tutto paragonabile all’esperienza delle normali avventure grafiche anni ‘90, nonché la mia unica scelta possibile), quella classica, che semplifica alcuni enigmi eliminando al contempo alcuni step per proseguire l’avventura, come convincere un NPC con più facilità. Inoltre, nel caso in cui doveste bloccarvi, esistono due utili oggetti nell’inventario: il primo è la lista degli obiettivi, nel caso non ricordaste cosa fare, utile se prevedete lunghi intervalli di pausa tra una sessione di gioco e l’altra, e il secondo è un libro di aiuti, che vi eviterà di navigare il web alla ricerca di soluzioni.
Dato che ci siamo, la qualità degli enigmi si attesta su buonissimi livelli, li ho trovati logici anche quando surreali, e molto meno criptici di quelli di Deponia, tanto per nominare un concorrente più recente. Se la vostra ludoteca comprende già avventure grafiche, bloccarsi è improbabile, tuttavia non impossibile. Mentre qualche perdita di tempo in momenti in cui le opzioni scarseggiano (o al contrario, sono fin troppe) è da mettere in conto, seppur per i veterani possa sembrare tutto più semplice, ma questo non è necessariamente un male.
Per quel che riguarda movimento del personaggio principale e dialoghi, invece, la perdita di tempo non esiste. Il gioco è velocizzabile a comando, sia usando i dorsali per andare più veloce nelle passeggiate, sia agendo dal menù per rendere istantanei i dialoghi, sia potendoli “skippare” con la pressione di un tasto. Per quel che riguarda invece i giocatori “hardcore”, a loro è dedicata l’intera avventura (ci torniamo poi), gli achievement e il sistema di carte quiz, da trovare in giro, che pongono domande per i più scafati, non solo sul gioco nuovo ma anche sulla serie e su chi l’ha ideata e programmata, domande le cui risposte talvolta sono anche di difficile reperimento in rete (provare per credere).
Adesso basta però con la matematica, mi sto annoiando: il gioco funziona, è moderno, e va alla grande anche su Switch e quindi in assenza di mouse, potendo usare analogici e tasti per navigare tra i vari elementi interagibili. Se il vostro timore è avere una versione impedita di un gioco PC, tutt’altro: la versione provata non ha mai mostrato segni di incertezza per tutta la durata dell’avventura e il suo splendore è immutato anche su console.
Sì, splendore, mettetevelo bene in testa: Guybrush difficilmente poteva tornare meglio di così. Agli integralisti della pixel art, vorrei dire: quanto vi perdete, per una questione di principio poi. I colori sono vibranti, le animazioni degne di un corto o lungometraggio, le espressioni dei personaggi sono perfette, alcuni panorami e sfondi assolutamente brillanti e memorabili. Return to Monkey Island è uno splendore per la mente, gli occhi e anche per le orecchie. I doppiatori originali hanno svolto un lavoro egregio, le musiche sono riconoscibili, gli arrangiamenti che variano a seconda delle situazioni, e non vi nego che nel caso diventi possibile prima o poi, sarà difficile resistere all’acquisto di un vinile che contenga quanto sentito in game. E poi, vabbè che ve lo dico a fare, la qualità dei dialoghi, raramente così alta nei videogiochi, rottura della quarta parete a go go e altri mezzucci narrativi, alcuni dei quali possibili solo nella logica del medium videogioco.
Se il gioco in sé è bello perché ben realizzato, finisce per essere capolavoro nel suo essere metafora dei nostri giorni, del tempo che viviamo e che abbiamo vissuto, dei videogiochi, ma soprattutto di noi stessi, sempre alla prese con la voglia di qualcosa di nuovo che però sia familiare, e così ossessionati nelle nostre ricerche da distruggere tutto ciò che ci circonda. Per questo il finale è altamente divisivo, non può che farvi gridare allo scandalo o rendervi più consapevoli, farvi fare una smorfia di compiacimento per essere stati buggerati un’altra volta, o perché, messi davanti allo specchio non potrete far altro che constatare che anche nel caso sia vero che il videogiocatore è un re, è altrettanto vero che il re è nudo. Dave Grossman e Ron Gilbert lo hanno capito anzitempo, e hanno capito che non c’è persona più nuda di un programmatore di quei tempi, e il vero finale è il messaggio che ci hanno lasciato alla fine di quell’album dei ricordi di cui sopra, non appena terminato il gioco.
Forse l’unica nota stonata in questa produzione sta proprio nel finale, che si rivela giusto nel messaggio (ma qui siamo nel campo del soggettivo, sappiatelo), ma un po’ affettato, anticlimax. Non buttato lì, assolutamente no: ben ponderato, ma forse aveva bisogno di un respiro più ampio. In fondo già dall’inizio venite messi al corrente che Guybrush Threepwood è cresciuto, è un adulto che ha vissuto imprese rocambolesche ma che oggi è più responsabile e vede tutto con un occhio diverso rispetto a quando era giovane, spregiudicato, ingenuo o addirittura scemo, anche egoista e perfino cattivo, a volte. Insomma siamo tutti Guybrush, ma vorremmo essere Elaine.