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Trovo sempre un po’ difficile presentare un progetto come quello di Live A Live, figlio di contraddizioni e compromessi. Da un lato abbiamo un’opera di importanza storica, dall’altro un sentimento di adattamento e preservazione che va ad alterare solo gli aspetti più superficiali di un’opera videoludica. Andiamo con ordine a sviscerare tutto così per la conclusione della recensione forse troviamo la quadra.
Correva l’anno 1994, quando Square rilasciò in Giappone l’ottavo lavoro di Takashi Tokita, alla sua seconda prova come sceneggiatore dopo Final Fantasy IV e prima come regista. Parliamo dell’uomo che da qui andò poi a definire Chrono Trigger e Parasite Eve. Primo lavoro musicale per Square di Yoko Shimomura, con la leggendaria Megalomania, musica che sia per nome che per sound ha ispirato Megalovania di Underteliana fama. Gioco all’epoca diverso, rivoluzionario, che andava a rompere gli schemi.

Le sue vendite in terra natia di circa 270.000 copie lo etichettarono come fallimento all’epoca, ma le sue influenze rimasero nei titoli successivi, così come si sviluppò il classico culto di sottofondo occidentale che produsse le classiche traduzioni amatoriali.
In cosa era diverso Live A Live dai suoi contemporanei? Tutto inizia e muore con la sua struttura. Invece di metterci di fronte ad una sola storia, con un incipit ed un finale definito, il gioco ci permette di giocare otto scenari diversi, ognuno con un protagonista distinto, tutti ambientati in periodi storici diversi. Preistoria, lontano futuro, passando per la Cina Imperiale, il periodo Edo e i giorni nostri. Ogni capitolo è distinto in stile, musica, accenti dei doppiatori, tono. Sembra di effettivamente giocare a tanti JRPG diversi in un unico pacchetto. Nel progetto originale furono chiamati diversi artisti per creare i design dei protagonisti, proprio per rafforzarne gli elementi distintivi.
Siccome le risorse non sono infinite ed il pacchetto ha una sua validità quando viene completato in tutte le sue avventure, ci sono delle concessioni che vengono fatte. Ogni singola avventura può durare dai 30 minuti alle 2 o 3 ore. I mondi da esplorare sono piccoli, così come il cast di personaggi e la possibilità di crescita all’interno dello stesso scenario.

Ogni personaggio viene inquadrato in uno stereotipo e lo vive nella sua pienezza. Ogni elemento della storia cade come ci si aspetta. Ci sono elementi di sorpresa qua e là, alcuni anche molto genuini in modi non propriamente attesi, ma il tutto sa di “già visto”. Qualcuno potrebbe dire che sa di già visto ad un occhio di chi nel 2022 “ne ha giocati tanti”, ma in realtà è il design stesso che comunica questa volontà, ma andare a spiegare il perché nei dettagli ricadrebbe in territorio spoiler, che preferisco lasciare stare.
Però farei un’omissione di informazione se non vi dicessi che a più riprese mi il donde lì si stava facendo ciuffole. In molte istanze mi stavo effettivamente annoiando. Il perché dipende da una concomitanza di fattori che toccano un po’ tutti gli aspetti del design del gioco.
Lato storia abbiamo già detto come l’elevata prevedibilità delle vicende, portava a far mancare il traino emotivo nel procedere in alcuni punti, ma il generale charme del gioco, aiutato da un comparto audiovisivo di altissima fattura riesce a mitigare. Quel che non viene mitigato particolarmente è il comparto gameplay.

Il sistema di battaglia si svolge sfruttando il sistema ATB dei Final fantasy di quell’epoca, introdotto tra l’altro proprio su Final fantasy IV, dove la velocità di decisione ed esecuzioni turni è decisa da una barra che si riempie nel tempo, rappresentazione visiva di un temporizzatore che cadenza lo scontro in base alla caratteristica di velocità dei singoli partecipanti. A questo si aggiunge un movimento su griglia. Questo perché gli attacchi dei personaggi hanno specifiche distanze di esecuzione e possono essere a bersaglio singolo o ad area, quindi navigare il campo di battaglia diventa tanto importante quanto decidere quale azione selezionare.
In teoria. Purtroppo l’estremo sbilanciamento della difficoltà, tarando tutto verso il basso salvo un paio di picchi di difficoltà non giustificati, porta il 99% dei combattimenti ad essere di un tedio mostruoso. La lentezza generale del sistema, tra animazioni, movimenti e transizioni in ingresso ed uscita, rende il tutto più pesante di come dovrebbe essere. Ci sono momenti di genio. Ci sono alcuni scontri che sono più puzzle che scontri veri. Dove bisogna sfruttare in modo giusto le combinazioni di mosse in sequenza, i punti di forza e debolezza per massimizzare il proprio potenziale d’attacco.
Ma quando il resto è spam totale, si fa molta fatica a farselo piacere fino in fondo.
Considerando la brevità delle singole avventure, viene a mancare anche quella parte comunemente definita come “abnegation” nella diconomie delle Estetiche del gioco, cioè quell’abbandono fine un po’ a se stesso di salire di livello perché sì. Non che il gioco non sappia offrire queste cose a chi le cerca, anzi, forse lo fa in maniera più furba di altri titoli in alcuni momenti ed estremamente diretta in altri, ma l’esperienza è molto più diretta e con meno sbatti intorno.

Altro punto debole è la navigazione. Gli ambienti sono piccoli, quindi non esiste un sistema di fast travel, ma è richiesto molto backtracking a mano. Che io odio particolarmente, noto che più vado avanti con l’età e più ogni cosa che fa perdere tempo mi besia sempre di più. E su due-tre ore di giocato ad avventura, arrivano ad occupare una parte preoccupante in alcuni scenari.
Comunque si tratta di elementi tranquillamente sopportabili caratterialmente dal giocatore., anche se strutturalmente rimangono. Questo è perché ci troviamo di fronte ad un remake audiovisivo dell’opera, ma non delle sue meccaniche. Nell’ottica di preservare lo spirito originale, è stato fatto un lavoro magistrale con l’Unreal Engine e l’oramai “brevettata” tecnica HD-2D di Square Enix, portando doppiaggio e remix delle musiche ad un livello magistrale. Ci sono anche un discreto numero di miglioramenti “quality of live” per rendere l’avventura più chiara e meno ambigua, ma l’anima è rimasta quella originale.
Importante da giocare per capirne la storicità, che sa regalare le giuste emozioni ancora oggi nei punti nevralgici dei suoi passaggi, che mostra come nel 1994 sapevano essere più inventivi nel panorama dei jrpg rispetto ad oggi, non avevano paura a fare cose completamente diverse (o forse c’era meno rischio imprenditoriale dopo che Final Fantasy macinava soldi), un qualcosa di delizioso da vedere e sentire, ma negli anni la concorrenza è diventata abbastanza agguerrita.