Spirito antico, terrore moderno
Samus è tra noi. Quasi, è vero, ma ormai Metroid Dread è talmente vicino che le scaramantiche boutade in stile “finché non è nella mia console non esiste” possiamo abbandonarle e gioire del ritorno della nostra cacciatrice di taglie preferita dopo un’attesa per cui anche l’etichetta di interminabile è riduttiva.
A 20 anni di distanza da Metroid Fusion, prequel diretto, Metroid Dread ci restituisce la visione originale di un progetto che affonda le sue radici nel 1986 e che nel corso degli anni è evoluto settando standard, definendo generi e generando numerose imitazioni. In particolare proprio su Nintendo Switch abbiamo visto un florilegio di titoli di spessore appartenenti alla categoria, come se la console rappresentasse il ritrovo ideale per giovani sviluppatori che vogliano sperimentare con i “metroidvania”.

MercurySteam non è certo un team che possa essere considerato giovane o inesperto, avendo alle spalle diversi titoli d’azione molto interessanti sia per quel che concerne il 3D che il 2D oltre che essere responsabili dell’ultima avventura in cui abbiamo impersonato Samus, quel Metroid: Samus Returns che ci ha fatto rivivere finalmente in una forma godibile l’ormai anacronistico secondo capitolo della serie, apparso su GameBoy nel lontano 1991.
Il team spagnolo ha fatto il suo nel dar forma al remake, pur ricevendo feedback controversi anche e soprattutto alla luce della diatriba legata ad AM2R, il fan-project tanto apprezzato dai giocatori quanto (giustamente) indigesto a Nintendo.

È quindi con un misto di curiosità e prudenza che abbiamo affrontato questa prova in anteprima del gioco completo della durata di 90 minuti, partendo da una nuova partita che ci ha permesso di provare – su una nuovissima e fiammante Nintendo Switch modello OLED – l’esperienza che tutti avranno modo di vivere a partire dal prossimo 8 ottobre.
Niente tagli, niente “missioni nel mezzo”, bensì una lunga prova di quella che possiamo definire una versione integrale di quanto visto nei treehouse di giugno.

Nintendo si è decisamente resa conto che sono passati VENTI ANNI dalla release di Metroid Fusion e per questo ha deciso di farcire la convulsa fase iniziale di gioco con tutta una serie di frammenti di memoria (in pratica versioni re-immaginate delle vecchie art di giochi precedenti) immediatamente utili a capire a che punto fossimo arrivati.
Perché convulsa? Perché Metroid Dread sceglie una bizzarra fusione tra inizio in media-res e flashback dell’immediato passato per giustificare la condizione in cui troviamo Samus, ancora una volta privata dei suoi poteri – e, a questo giro, senza neanche la possibilità di saggiarli.

Non che sia un problema, sinceramente. Il pretesto per cui la missione di Samus ha inizio è una comunicazione relativa alla presenza di un Parassita X – specie che in realtà non dovrebbe più esistere dopo Fusion – sul pianeta ZDR e sebbene l’informazione porti con sé l’inevitabile dose di sospetto, non c’è altra scelta che partire in quarta sotto la guida dell’IA ADAM, che in questa occasione avremo modo di sentir parlare la nostra lingua grazie alla scelta degli sviluppatori di utilizzare un bizzarro sintetizzatore vocale.
All’inizio c’è da sorridere, ma poi ci si abitua.

Se avete seguito i trailer (se non l’avete fatto, smettete di leggere questa anteprima o proseguite a vostro rischio), sapete già cosa vi attende: a quanto pare Samus ha perso tutti i suoi poteri e le sue abilità a causa dell’aggressione di un
*ultima chance per abbandonare l’articolo*
Chozo, che la affronta nel medesimo istante in cui la nostra cacciatrice di taglie approda sul pianeta. Anche Adam è piuttosto curioso in merito ma neanche incrociando i dati presenti nel suo database con le informazioni appena raccolte riesce a ricostruire cosa sia successo. Unica certezza è che Samus abbia perso le abilità a seguito di una pesante interferenza con il suo stesso organismo.

Per chi quindi lamentava che i trailer fossero troppo spoilerosi… beh ragazzi, stiamo parlando di roba che si vede nei primissimi istanti di gioco, state sereni. Il vostro problema più pressante sarà tenere d’occhio gli EMMI e riuscire a procedere nella vostra esplorazione senza venire uccisi.
E ancora uccisi. E ancora, e ancora, e ancora: gli EMMI sono indistruttibili, a meno di non venire in possesso dell’energia Omega. Perché sì, anche la più efficiente e pericolosa delle macchine ha un punto debole.

Ed è qui che si inizia a percepire quale sia l’idea di progressione su cui è costruito – almeno nella sua prima parte – il gioco: il compito di Samus è uscire dalla base in cui si trova, puntando verso l’alto, esplorandola in ogni suo anfratto. Per farlo deve venire a contatto con gli EMMI, destinati ad intralciarle il cammino a meno che lei non riesca a raggiungere le aree in cui risiede l’energia Omega o poteri in grado di agevolarle la fuga.
È così che entrano in gioco mini-boss, boss e potenziamenti, pronti a scandire la crescita di Samus e a fornirci un sistema chiaro di avanzamento: sappiamo infatti fin da subito quanti EMMI si aggirano per la base (per ora) e ad ogni vittoria viene aggiornato il loro conteggio. Liberarsene dà molta soddisfazione, bisogna ammetterlo, anche se una volta fatti fuori solitamente sembra non esserci molto altro da fare nelle aree precedentemente occupate (al netto di eventuale backtracking).

Il suffisso “DREAD” non è usato a caso: avere a che fare con gli EMMI è fonte di stress per il giocatore, costretto a pesare ogni passo in loro presenza e a buttare costantemente l’occhio sulla mappa per capire se il giro che stiamo facendo è sicuro o stiamo semplicemente cadendo in una loro trappola.
Ogni nostro passo, ogni nostra azione, viene rilevato dai loro sensori. Potrebbero non essere propriamente vicino a voi, ma inizieranno ad indagare nell’area che li ha allertati. Si può ancora mantenere la calma, sia chiaro, ma guai a finire nel loro raggio d’azione: in quel caso passeranno ad una modalità di inseguimento molto aggressiva, mirata all’eliminazione, e l’unica chance è scappare per allontanarsi sensibilmente o uscire del tutto dall’area sorvegliata dall’EMMI. Oppure potreste essere bravissimi nel trovare il tempismo giusto a sfuggire alla loro presa mortale, ma la possibilità di riuscita è davvero molto, molto bassa – ADAM stesso dice che si aggira attorno all’1%.

Per fortuna gli EMMI non seguono il giocatore per tutta la mappa, lasciandogli quindi il tempo di esplorare, analizzare e venire a capo dell’intricata planimetria. Rendersi conto dopo una mezz’ora di gioco di aver esplorato una mappa piuttosto vasta è positivo, in particolare quando ci si ricorda lucidamente di aver lasciato indietro un potenziamento, una parete sospetta o una porta inaccessibile.
Fin dai primi istanti di Metroid Dread si percepisce una crescita del personaggio che conduce ad un costante e tambureggiante progresso e, pur senza la morfosfera (almeno inizialmente), sono tanti gli elementi a cui prestare attenzione. Porte che si aprono solo con un colpo caricato, altre che richiedono la sconfitta di un nemico o la deviazione di una fonte di energia, accessi bloccati a chi non è in grado di celare la propria presenza alle telecamere: ben presto guarderete la vostra mappa cercando di ricordare quale porta abbiate lasciato indietro che potete finalmente aprire.

A memento dell’esperienza di Samus Returns, in Metroid Dread ritroviamo il colpo “melee” da utilizzare come contrattacco al momento giusto, integrato però anche come azione in corsa per liberare il passaggio. Inizialmente indigesto, questo gesto può diventare in fretta utilissimo nell’attraversare aree di gioco in cui i nemici giacciono proprio sul nostro tragitto, anche per evitare di dover costantemente utilizzare il cannone del nostro braccio.
Dopo un po’ zompettare da una piattaforma all’altra e correre tirando ceffoni in giro diventa una piacevole consuetudine. Si può sempre giocare in modo tradizionale, ma vista la potenza degli attacchi contestuali (basta premere il tasto dedicato quando il nemico emette un bagliore) e l’abitudine dei boss di integrare questa meccanica nei loro pattern, è decisamente consigliato prendere le misure con questa abilità.

La grande forza del gioco, da quello che si può percepire al momento, è la solidità e convinzione con cui si avanza di stanza in stanza, di settore in settore. È vero, Samus è stranamente muta e quasi inerte nel prendere atto di ciò che ci circonda e a volte le spiegazioni di ADAM possono risultare prolisse, eccessivamente leziose. In particolare quando le ricorda che il suo DNA Metroid la rende vulnerabile nelle zone a bassa temperatura – ehi, per chi mi hai preso, per un finto fan della serie? /jk
Eppure la mappa si svela, si affrontano boss, intuiscono segreti, si cambiano settori e nel mentre ci si rende conto di come se tutto funziona bene, anche mira a 360° e counter possono integrarsi per offrire nuove e più ricercate sfide da porre al giocatore.

L’esperienza dal vivo in modalità portatile su Nintendo Switch: Modello OLED ci ha restituito un’impressione estremamente positiva, in particolare per quel che concerne l’aspetto tecnico grazie alla connubio tra lucentezza nei colori e l’aumento della superficie visibile. In questo setup, il comparto grafico ha potuto esprimersi al meglio.
Innanzitutto il lavoro sulla modellazione è efficacissimo, presentando una Power Suit rinnovata ma riconoscibile che spicca per dettagli metallici e rifrazioni: a livello di effettistica, pur consapevoli dei limiti dell’hardware, è difficile non apprezzare il risultato finale, soprattutto nelle cutscene – davvero riuscite.

Lo stile asettico che permea l’atmosfera, dalle ambientazioni alla tuta di Samus, trae vantaggio dallo schermo OLED e dai suoi neri intensi: non sono tantissime le situazioni in cui c’è una spinta a livello grafico (principalmente in momenti specifici delle boss fight e nelle cutscene), ma la pulizia e la fluidità con cui si muove il tutto rende onore ai dogmi del franchise. Controllo totale, visione chiara, velocità nel passare tra le situazioni di gioco.
Le stanze da “laboratorio” sono sì semplici nella renderizzazione, a volte peccando lato texture, ma recuperano in stile e personalità. Le aree di salvataggio restituiscono la giusta solennità, così come le rovine della cultura Chozo, e la visione d’insieme in alcuni settori sorprende per efficacia nell’uso degli elementi visibili in profondità.
Non siamo di certo di fronte ad un nuovo standard tecnico per la console, ma Metroid Dread sembra efficacissimo nell’equilibrare funzionalità ed estetica.

Chi non ama troppo la “tentacolarità” dei comandi dovrà allenarsi un po’, perché Metroid Dread utilizza in toto i 4 dorsali a disposizione del controller per passare ai missili, per attivare la mira analogica e utilizzare il cannone Omega. Unendo questo all’uso attivo della scivolata (cruciale nei combattimenti) e del contrattacco, si dovrà inevitabilmente passare da qualche intreccio di falangi prima di abituarsi. Ma è questione di istanti, anche perché il know how dei precedenti titoli bidimensionali non va certo a sparire.
Discorso diverso di fronte ad un EMMI, che rimette un po’ in discussione le nostre certezze, ma in generale il DNA Metroid (questa volta non quello di Samus) si esprime con fedeltà in questo capitolo e ci lascia molto ottimisti per quel che rimane da giocare.
Avremmo voluto vedere di più, scoprire qualcosa di totalmente diverso dopo che i numerosi trailer avevano lasciato intendere avessimo sbirciato più del dovuto (a quanto pare non è così), ma è bene tenersi qualcosa anche per il lancio. Appuntamento all’8 ottobre quindi!