Un viaggio all’interno di un videogioco e nei ricordi
Da qualche anno ormai è scoppiata la moda degli anni ’80 e la cosa, personalmente, mi piace. Di certo non sono il solo che apprezza quel fascino retrò vista l’enorme mole di prodotti che prendono spunto, o sono proprio ambientati, in quegli anni. Abbiamo quindi goduto a vedere serie TV come Stranger Things, il sequel di Karate Kid con Cobra Kai o ancora Ready Player One, romanzo portato poi sul grande schermo che ha tante analogie con Narita Boy.
L’ultima fatica del Team17, nata grazie ad un Kickstarter ormai ben quattro anni fa, racconta infatti le gesta di uno sviluppatore che crea una nuova console, il Narita One, che ha un successo enorme grazie al suo videogioco di punta, Narita Boy appunto. Ciò lo porta ad una popolarità così enorme da diventare il “Creatore”, una sorta di messia per la popolazione mondiale, anche se la strada che l’ha portato a tutto ciò è stata tortuosa. Seppur il vero protagonista del gioco sia Lionel Pearl, il Creatore, durante il gioco si impersona suo figlio o meglio, il Narita Boy i cui panni vengono presi dalla progenie di Lionel.

Durante una partita al gioco del padre, infatti, il ragazzo viene letteralmente rapito dal titolo entrando a far parte di esso: i vari NPC chiedono infatti aiuto al ragazzo, il “prescelto”, ad essere Narita Boy e salvare i mondi presi da assalto da HIM, liberando Motherboard. Come potete intuire, il gioco fa uso di termini tecnici per creare un mondo vivo, ricco di suoni robotici, luci al neon, ambienti stilizzati e musiche synthwave tipiche degli anni ’80. I ragazzi del Team 17 hanno inoltre usato un filtro che dà un aspetto tipico delle vecchie TV a tubo catodico (comunque removibile nelle impostazioni) che fa immergere ancor di più in quegli anni.
Ma cos’è, in pratica, Narita Boy? Il gioco nel gioco altro non è che un’avventura d’azione con un minimo di metroidvania: per la maggior parte del tempo bisogna semplicemente andare da punto A a punto B seguendo delle strade abbastanza lineari, il tutto mentre si combatte contro nemici e si raccolgono power-up. Quest’ultimo aspetto, insieme ad un leggero backtracking, permette di apprezzare le fantastiche ambientazioni fatte da pixel e luci, con 300 schermate e oltre 20.000 sprite tutti realizzati a mano.

Nel corso dell’avventura, che ci fa vivere una storia interessante e a tratti toccante ma che non vuole mai prendersi troppo sul serio, facciamo la conoscenza di tantissimi personaggi ben caratterizzati e che ci permettono di andare avanti nel nostro cammino verso lo scontro con HIM. Molti di loro fanno luce sulla lore spiegando come il regno della Trichroma (chiaramente ispirata ai colori RGB) sia caduto in rovina, altri ci daranno le chiavi d’accesso alle aree successive, non prima di aver eliminato diversi nemici o aver risolto piccoli enigmi ambientali. Questi ultimi sono rappresentati semplicemente dal trovare un interruttore o scovare dei simboli da ricordare per poi creare la combinazione giusta utile ad aprire dei portali; nulla di complicato, ma giustifica bene il backtracking di cui prima.
Tutto è in salsa retrò e geek, quindi non sorprendetevi se al posto delle chiavi per aprire le porte riceverete dei floppy disk, o se questi siano anche i raccoglitori di potenziamenti o addirittura delle tavole da surf.

Narita Boy è un vero omaggio alla cultura pop degli anni ’80 e cerca di dimostrarlo in ogni pixel e suono che riproduce: persino la sola localizzazione in inglese, cosa strana per un team che ha sempre tradotto i suoi giochi anche in italiano, fa pensare a qualcosa che riporta a quegli anni. Non solo questo però: sono tantissimi i riferimenti e citazioni a pellicole o videogiochi, tra i quali non posso non citare la mitica DeLorean di Ritorno al Futuro.
Dietro a tanto effetto nostalgia, però, il Team17 non ha nascosto un gioco scarno di gameplay e divertimento, l’essenza di un videogioco. Anche sotto questo punto di vista, infatti, Narita Boy regala molte gioie, seppur con qualche pixel bruciato (fatemela passare, dai).

Il protagonista si muove in modo agile fin dall’inizio (d’altronde è l’eroe!) e in poche ore di gioco possiamo fare affidamento sui potenziamenti di base utili a battere la maggior parte dei nemici: dalla Technosword che all’occorrenza può anche sparare tre colpi a media distanza o uno a lungo raggio, alla possibilità di recuperare salute consumando una barra di energia che va riempiendosi uccidendo i nemici. Nel corso delle 6-7 ore utili ad arrivare ai titoli di coda, il nostro Narita Boy riceverà diversi upgrade fino a poco prima dello scontro finale: un sistema di controllo non perfetto tende a rendere qualche esecuzione di pulsanti un po’ più ostica di quanto dovrebbe e questo, aggiunto alla precisione dei salti non proprio esaltante, aumenta il contatore delle morti anche quando a sbagliare non è il giocatore.
Il gioco, in ogni caso, non è molto punitivo: i checkpoint sono numerosi e non c’è un vero game over. Una volta finita l’energia vedremo un altisonante “RIF” (Rest in Force) e si torna a poco prima della morte, pronti ad affrontare di nuovo i pericoli.

Come detto prima è possibile recuperare l’energia caricando la nostra aura. Nel corso dell’avventura è possibile anche sfruttare questa per potenziarsi in base ai nemici che abbiamo di fronte: gialli, blu e rossi. Ogni potenziamento permette di aumentare la propria potenza contro i nemici dello stesso colore, ma allo stesso tempo si ricevono anche molti più danni, il che rende quasi più un pericolo che un vero bonus sfruttare questi potenziamenti.
Narita Boy non smette di stupire neanche quando ormai sembra aver toccato l’apice con robot giganti, sacerdoti che ballano, rane tecnologiche, cavalcate in deserti e foreste mistiche, ma lascia spazio anche a momenti più toccanti come lo sbloccare i ricordi di Lionel Pearl. Nei panni dell’eroe, infatti, il figlio si ritrova a scoprire il passato del padre con cui non è cresciuto e di cui sa molto poco, un viaggio introspettivo che ci fa conoscere i motivi per cui Narita One è stato progettato e che permette ai due di avvicinarsi, seppur solo idealmente, fino ad un finale che lascia molto spazio ad un possibile sequel.

Più volte ho citato l’ottimo comparto grafico che tanto richiama i mai troppo amati anni ’80, ma andando più nel dettaglio si può affermare che Narita Boy non rientra fra quei titoli che mascherano una povertà grafica e poca voglia di osare dietro la pixel art. Questo stile grafico può infatti regalare molte gioie, ma troppo spesso vediamo giochi che probabilmente farebbero brutta figura anche su uno smartphone: fortunatamente i ragazzi di Team17 hanno dato il meglio di sé, regalando effetti grafici straordinari, ambientazioni uniche e animazioni d’alta scuola. Solo in modalità portatile ho avuto sporadici cali di frame rate e un effetto leggermente più sfuocato, ma nulla che compromettesse l’esperienza.
Dello stesso livello, o forse addirittura un gradino più su, la colonna sonora ricca di motivetti synthwave e due canzoni cantate che sono già entrate nella mia playlist su Spotify.

Gli anni ’80 hanno un certo fascino e questo è innegabile, ma bisogna saper cogliere il meglio di questo periodo per riproporlo nella forma e formula giusta, evitando di diventare la fiera delle citazioni prive di contenuto. Narita Boy è l’esatto riferimento da prendere come esempio: un tributo agli anni delle luci al neon, della musica elettronica e delle icone pop che ancora oggi vengono osannate, ma allo stesso tempo un concentrato di divertimento e azione che fanno sognare.