C’è una software house in Europa, divisa tra Inghilterra e Germania, chiamata Spacebot Interactive. È probabile che nei suoi uffici la next gen sia arrivata quasi silenziosa, che non ci si preoccupi di questioni come il cloud gaming o il 4K. O magari la situazione è ancora più estrema: le casse dello stereo trasmettono grunge in heavy rotation, in tv si guardano le partite del Chelsea di Zola e l’ultimo Terminator (il 2, Judgment Day), sul comodino campeggia un libro di Chuck Palahniuk appena uscito, Fight Club. Non lo possiamo sapere, ma sarebbe bello fare un giro lì in mezzo, dove vengono sviluppati giochi per Game Boy.
Alla sua prima produzione, nell’anno di Cyberpunk 2077 la casa di sviluppo ha proposto Dragonborne, rpg fantasy, opera della mente e del lavoro di Chris Beach. Parliamo ovviamente di cartuccia, scatola di cartoncino e libretto d’istruzioni.
Allora riaccendiamo il Game Boy – e quando lo facciamo, si riaccende anche una particina di noi che forse non vedevamo da un po’.

In un mondo nel quale i draghi rappresentano una minaccia, la sparizione dell’unico dragon slayer in circolazione costituisce un problema gravissimo – e anche personale, dal momento che si tratta del padre del nostro personaggio, Kris, un giovane il cui destino appare segnato da un evento fenomenale vissuto in giovanissima età. Salutata la madre, ci catapultiamo alla ricerca dell’altro genitore, impreparati per le avventure che ci aspettano ma sorretti dal presentimento del nostro fato.
Dragonborne è un gioco di ruolo tributario soprattutto di Pokémon, ma anche di Zelda, Final Fantasy, i grandi classici verde-gialli degli anni Novanta. I nomi scomodati non devono spaventare, sono anzi influenze omaggiate con esecuzione eccellente. È un gioia per gli occhi e per il cuore muoversi negli 8 bit delle città, delle caverne, dei corsi d’acqua sviluppati con amore da Spacebot Interactive, in un’estetica fantasy molto suggestiva con tinte dark (non è un caso che il prossimo titolo della software house anglo-tedesca sarà un horror). L’audio non è da meno, la soundtrack e gli effetti danno l’impressione in infilarsi nelle orecchie delle cuffie degli anni ’90.
E il piacere dell’esplorazione fluttua tra i sensi e l’intelletto, grazie a una storia semplice ma che riesce a catturare la curiosità, narrata attraverso tanti piccoli preziosi dettagli.

E la varietà è senz’altro un pregio evidente della produzione. Numerose le situazioni in cui ci ritroveremo, sempre motivate a livello diegetico e ben realizzate tecnicamente: tra combattimenti, esplorazioni, travestimenti, giochi, Dragonborne riesce a stimolare per tutta l’avventura.
I combattimenti, a turni e a incontri non casuali (ma spesso obbligati), costituiscono una componente fondamentale e si basano su un sistema che potremmo paragonare alla dama: non si sale di livello, non si può aumentare a proprio piacimento l’arsenale offensivo, ma combatteremo alla pari con tutti i nemici, cercando di alternare con strategia attacchi, magie e pozioni – come nella dama, ogni mossa è fondamentale. Se all’inizio questo sistema può stranire, dopo un po’ appare quasi più razionale, tanto più dal momento che il gioco è avaro di ricompense in denaro e oggetti, e non è quindi scontato trovarsi sufficientemente preparati ad ogni incontro: gli scontri coi nemici sono stati progettati in un’ottica quasi da survival.

Tutte queste le peripezie avranno luogo in un mondo di gioco non sterminato e quindi percorribile in autonomia col proprio senso dell’orientamento, ma l’assenza di una qualsiasi mappa appare quanto meno peculiare; e questo rifiuto cartografico può essere visto come una delle poche note stonate del titolo, insieme alla mancanza di un qualsiasi sistema di trasporto a lunga distanza – ma è verosimile che quest’ultima soluzione si stata adottata affinché il backtracking, comunque non estenuante, diluisca la longevità complessiva dell’esperienza ludica.

Sono necessarie meno di 10 ore per portare a termine l’avventura, ma potremo cimentarci nella ricerca dei collezionabili, o nel raggiungimento del miglior ranking possibile ad avventura completata.
In ogni caso, quella di Dragonborne è un’avventura che fa bene ai videogiochi. Attraverso un mondo ostico, dove ogni sforzo e ogni denaro contano, popolato da personaggi che hanno sempre qualcosa di interessante da dire, nemici di ogni sorta, i ragazzi della software house inglese ci ricollegano con alcuni archetipi del videogioco che manifestano l’anima più pura di questo mezzo espressivo: l’esplorazione solitaria, il dover comprendere enigmi e meccanismi senza alcun tutorial, l’automatismo con cui la nostra fantasia completa quella manciata di pixel in due colori, la magia di perdersi in meandri racchiusi in una cartuccia minuscola.
Spacebot Interactive ha prodotto un gioco con la lettera maiuscola, ricco di amore – e che cos’è l’amore per un videogiocatore, se non l’apostrofo rosa tra il bottone A e il bottone B? Per me uno dei game of the year, per l’audacia, la passione, e poi la qualità d’esecuzione.
Thank you guys, aspettiamo con impazienza il vostro imminente secondo lavoro; e lunga vita al Game Boy!