Che ne è stato dello spirito iniziale della serie in New Horizons?
Difficile dire cosa passasse per la testa di Katsuya Eguchi, quando ha creato Doubutsu no Mori, la cui traduzione è un evocativo “foresta degli animali”, rimpiazzato da un più accattivante Animal Crossing in occidente. Un gioco i cui temi portanti sono famiglia, amicizia e senso della comunità. Nonostante questi temi possano sembrare di primo acchito sensazioni positive, nella fase iniziale il protagonista è un adolescente che fa amicizia con uno strano gatto blu e bianco, all’interno di un mezzo pubblico, a notte fonda.
Da queste prime battute scopriamo che ci stiamo trasferendo in una nuova città, che dovremo ricominciare da capo, fare nuove amicizie, vivere una nuova vita. Insomma, sembra quasi di poter rivivere lo smarrimento che deve aver provato Katsuya Eguchi, quando si trasferì da Chiba per entrare in forze a Nintendo, dove avrebbe iniziato come designer con Super Mario Bros. 3 (robetta insomma) per l’intera giornata, per poi far rientro nella solitudine del suo silenzioso appartamento.

Con la paura che Animal Crossing non sarebbe mai arrivato in Europa per via della sua filosofia, apparentemente priva di appeal per un videogiocatore dei primi anni 2000, comprai la versione americana di Animal Crossing per Nintendo Gamecube, con un disco “Free Loader”, per poter far partire il gioco su una console PAL. Oggi potrebbe sembrare strano e patetico, ma ricordo gli sfottò di chi aveva altre console (o la stessa addirittura). Non è un gioco, se lo è non si capisce di quale genere faccia parte, è una sciocchezza, non lo giocherà nessuno, soldi sprecati.
Seppur l’atteggiamento sia sempre stigmatizzabile, perché ognuno si diverte come vuole in fin dei conti, bisogna contestualizzare quelle critiche. All’epoca, un videogioco doveva avere uno o una serie di obiettivi, altrimenti era un’anomalia. Oggi siamo quasi abituati a vedere giochi che ne siano privi, e non mi riferisco solo a giochi per casual, come farmville o generici giochi mobile saltuariamente alla ribalta, ma anche a titoli per hardcore gamer come possono essere roguelite a generazione procedurale. Il media si evolve e cerca sempre nuove strade.

Animal Crossing era così, era diverso. Cercavi di vendere conchiglie per ripagare un debito a un tanuki, facevi amicizie con bizzarri animali. Se ritiravi la posta a un certo orario, potevi beccare Tino il postino, segretamente innamorato di Polly. Polly è un pellicano irascibile che lavora all’ufficio postale di notte, ma se andavi alle poste di giorno incontravi la sorella Pelly. Un cane bianco si esibiva davanti alla stazione dei treni. Per vedere il sindaco, una vecchia tartaruga barbuta, basta andare al municipio, ma per trovarlo sveglio si deve attendere Capodanno, o chiedere a Polly di svegliarlo nelle sporadiche volte in cui si trova all’esterno del municipio. E occhio a non resettare! Ogni istante di questa bucolica e strana vita deve essere registrata, pena una ramanzina da una talpa particolarmente ossessionata e pignola.
Come si può definire un gioco del genere? La voce più ricorrente è “simulazione di vita” o “communication game”. Ma si può davvero comunicare con personaggi che esistono solo all’interno di un videogioco? Si può provare empatia, affezionarsi o odiare qualcuno o qualcuna che non esiste, mero assemblaggio di poligoni e texture, che nemmeno recita, ma enuncia le sue linee di dialogo prendendole opportunamente dal codice ideato da un gruppo di sviluppatori? A detta di Eguchi, Animal Crossing potrebbe aiutare a disinibirsi, favorire la comunicazione nella vita reale, dato che si possono fare dei tentativi a salve con personaggi fittizi.

Cosa sia Animal Crossing in tutti questi anni, forse non l’ho ancora capito pienamente, ma so cosa non è più. Animal Crossing New Horizons infatti è a tutti gli effetti un videogioco, e non perché i suoi fan sono usciti dalla ghettizzazione, banalizzando una cosa che era speciale perché per pochi, ma perché, seppur privo di un finale vero e proprio (sì, esistono i credits, ma sono tutt’altro che titoli di coda), adesso ci sono degli obiettivi. Sono sempre obiettivi di lunghissimo termine, che “costringono” il completista più sfegatato a giocare un anno e passa, pur con frequenza sporadica.
Il Nook Phone mette in strada il neofita che non sa bene cosa fare da un certo punto in poi, una volta raggiunto l’ultimo upgrade della propria casa, grazie a una serie di obiettivi. Probabilmente grandissima parte di chi lo ha giocato non punterà alla completezza totale, battendo le mani o rosicando virtualmente quando tra anni si scoprirà che una vecchina del Kentucky ha passato più ore con questo gioco che con i propri nipoti. Nook Phone a parte, il primo Animal Crossing che ho giocato faceva un lavoro migliore, pur nella sua pochezza di risorse, nel proporre una vita altra. Sì, adesso gli animaletti mangiano, vanno a dormire, si allenano, vivono insomma. Eppure ci sono tanti dettagli che sono stati soppressi in funzione di un gameplay più accattivante.

Ad esempio, Tom Nook e Fuffi non hanno una vita propria, e il municipio che li ospita è aperto giorno e notte. A volte li vedi sonnecchiare, ma è chiaro che non sia vita quella lì. Prima non sapevi cosa facesse di preciso Tom Nook quando l’emporio era chiuso, e riempivi quel vuoto con l’immaginazione. Adesso è come se gli sviluppatori si siano arresi all’idea che nessuno potrebbe mai credere o empatizzare con quel personaggio, e non ci sia bisogno di inventarsi tanti retroscena, è una cosa digitale, vera solo nel suo mondo fatto da grappoli di bit. La posta appare magicamente nella casella a qualsiasi ora del giorno, nemmeno Tino fosse stato licenziato per far posto a droni silenziosi e invisibili. La musichetta di Mr. Resetti è chiaramente udibile quando si contatta l’elisoccorso, ma il suo destino è ancora ignoto, chissà, magari è ancora nella sua tana, a mangiucchiare pizza avanzata davanti a una tv crt perennemente accesa.
Tutti questi pezzi di puzzle mancanti, sembrano ben poca cosa per chi non è cresciuto con la serie, ma spostano l’attenzione del giocatore verso qualcosa di più artefatto e meno genuino. Perché è quello il mestiere di un programmatore, non farti accorgere che tutto è matematica, a partire dal press start, lo stesso ruolo del regista alle prese con attori insomma, e con una storia di fantasia, alla quale però noi dobbiamo credere. Ancora di più, sono stati eliminati i già ben pochi fattori che potevano causare dispiacere al giocatore: gli animali sono meno burberi, i fiori crescono nuovamente anche se vi si corre sopra per strapparli, e il gioco salva in automatico.

La cosa che causava più dispiacere in assoluto, però, era svegliarsi e scoprire che un abitante, magari quello preferito, aveva fatto pacchi e valigie per trasferirsi alla chetichella, destinazione sconosciuta. La rotazione casuale degli abitanti era una vera e propria prova per il carattere del giocatore. Si imparava ad amare un animaletto che vi ha fatto esclamare “che brutto” non appena lo avete visto, instillando i semi della tolleranza verso il diverso. Ok, forse sto esagerando, Animal Crossing è solo un videogioco, e non un trattato umanistico o un percorso formativo, eppure è un distillato di piccolissime nozioni apprese dall’imprevedibilità della vita quotidiana vissuta.
Forse doveva andare così. Non si può essere semplici al giorno d’oggi, perché la basilarità fa rima con povertà. Tutto cambia, anche Animal Crossing, sebbene ogni iterazione contenga così pochi passi avanti da sembrare quasi un porting migliorato della versione precedente, ma la cosa è evidente se si confronta il primo e l’ultimo. Oggi Animal Crossing non è forse il gioco in cui si comunica in maniera bislacca con buffi animaletti, ma più l’isola sicura in cui arredare la propria casa come nella vita vera si può soltanto sognare di farlo, e in cui sfoggiare vestiti nuovi ogni giorno e addirittura terraformare l’isola a proprio piacimento. Ha preso una deriva sandbox insomma, in un periodo in cui questo termine è caduto nel dimenticatoio, e ha fatto davvero un lavorone nel risollevare gli animi in pieno lockdown da pandemia, proprio perché fa della positività e del pacifismo le sue caratteristiche fondanti e mai rinnegate.

Animal Crossing oggi è un’altra cosa, nemmeno necessariamente migliore o peggiore, e forse molte cose “mancano” per via di uno sviluppo non ancora completo, ma sembra piuttosto chiaro che si è scelta una direzione che strizza l’occhio più alle possibilità di personalizzazione che alla necessità di doversi ricostruire una nuova vita, e affrontare lo spettro della malinconia. Nuovi orizzonti, dove il cielo è sempre più blu.