Quello che ricordo

Quello che ricordo è che non smettevo mai di giocare. Non deve essere cambiato molto da allora, se ancora gioco e scrivo su NintendOn

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O anche: come i videogiochi hanno rovinato la mia vita

Non ricordo di preciso la mia prima volta con il videogioco. Si è trattato sicuramente di una cosa istintiva, viscerale. Ogni cosa che sembrava potesse essere grafica di videogioco mi attraeva come una lucciola a una lampadina, e senz’altro ai miei genitori doveva sembrare così, al massimo avranno pensato “gli passerà”. Se mi avessero osservato più attentamente, era chiaro che non mi sarebbe mai passata. Riempivo quaderni interi con ritagli presi da giornali, compravo agende telefoniche, invece di cognome-nome-numero scrivevo nome gioco-produttore-voto personale. 

I primi videogiochi della mia vita sono stati Commodore, abbastanza prevedibilmente. Il Commodore 64 però venne solo dopo mesi di sbavo con il Vic-20 di miei cugini, che ospitava la degnissima cartuccia di Radar Rat Race, sviluppato da Hal Laboratory, quando si dice il destino. Mio padre poi si convinse a comprare un Commodore 64, non so se per le solite “scuse” mie e di mio fratello, “serve per studiare” o se in acceso spirito di competizione con parenti e amici. Fatto sta che finì per giocarci anche lui per innumerevoli notti, soprattutto ad Arkanoid e a Championship 3D Snooker, che ovviamente non si chiamava così in Italia, ma Billiards.

Una foto del mio Double Dragon 3 per Commodore 64
Double Dragon 3, regalo di compleanno, mi rese euforico nonostante fosse nefando

Perché con il Commodore 64, i giochi originali erano mitologia, mentre la norma erano pubblicazioni editoriali, che valicavano sfrontatamente il confine della legalità, di cassettine con dentro giochi rippati e con nomi cambiati. Ricordo quando mio padre doveva andare da Ottica Randazzo, e io mi incollavo alla vetrina dei giochi originali ultracostosi, e riusciva a staccarmi solo con la promessa di passare in edicola. Era lì che i sogni si avveravano, dopo che mio padre sborsava cinquemilalire per una cassettina Game 2000 con 5 giochi o Hit Parade con addirittura 30 giochi. Ricordo il grande uso di penne e matite per segnare a quale numero si fermasse il counter del datasette del C64, per poter poi caricare il gioco preferito. 

L’edicola continuò a essere il mio negozio di videogiochi preferito anche quando mio padre comprò un grigio (oggi giallo) lettore floppy con la sigla Commodore 1541 – II Floppy Disk Drive, ricordo con affetto i soldi messi faticosamente da parte, saltando la pausa colazione a scuola, per poter comprare il nuovo numero di ZIP disk della Di.Erre, quando non direttamente una busta con dentro il floppy e un foglio con la cover del gioco fotocopiata in bianco e nero, probabilmente opera dell’edicolante stesso. Quando mio fratello portò a casa un Amiga 500+ con una carriolata di giochi, iniziò il periodo più amatoriale della mia infanzia videoludica. Poter comprare un pacco Polaroid da 10 floppy da 3 pollici e mezzo, avviare X-Copy e nell’attesa scrivere o addirittura disegnare sulle etichette, mi dava una soddisfazione immensa, manco fossi stato io a creare il gioco.

Com’è possibile che non sia tornato su eShop o quantomeno Steam?

Per quanto amavo i giochi occidentali, quelli che giocavo di più venivano dall’oriente. Per mesi non c’era altro che Mario, Mario e ancora Mario. Conoscevo ogni segreto, avevo tempi di risposta così netti e precisi che si direbbe quasi che ero io in prima persona a dover oltrepassare un burrone, e non un alter ego digitale. Ebbi la fortuna di poter avere non solo un Game Boy, con il quale ho passato ore e ore con Tetris e, figuriamoci, Super Mario Land 2, ma anche un Game Gear. In ogni caso, ho avuto un’infanzia ludica da sogno, perché quello che non avevo, lo avevano amici o cugini, di conseguenza ho giocato di tutto: Mega Man e Wonder Boy, Super Mario World e Streets of Rage. Ricordo che l’edicola non smise mai di spacciarmi roba e compravo con regolarità allarmante Console Mania, ricordo l’odore della carta, le mattine estive spaparanzato sul letto con un gelato algida in mano e gli occhi appiccicati a screen di giochi che avrei giocato solo un decennio dopo, grazie all’emulazione.

Ricordo lo scambio di cartucce tra compagni di scuola, perché costavano talmente tanto che i miei mi accontentavano solo in occasione di festività come Natale o compleanno, e a volte cercando di indirizzare l’acquisto verso Battletoads, piuttosto che su The Legend of Zelda, per risparmiare qualcosina. Ricordo il soffio sui connettori della cartuccia e i colpi a vuoto sparati dalla zapper rossa e grigia, diretti allo strafottente e infingardo cagnolone di Duck Hunt.

Era così difficile da essere disumano

Ricordo le sala giochi, e come non ci fosse assolutamente paragone tra un cabinato con Toki e la conversione da casa (che ho comunque consumato), ricordo le facce poco raccomandabili, l’odore di chiuso e di fumo, i segni delle sigarette accanto ai pulsanti, e gli sgabelli traballanti, e mi ricordo con tale lucidità la pianta del locale, i cabinati, i biliardi, dove erano posizionati, da restare sempre qualche secondo interdetto, oggi, quando mi ritrovo davanti agli stessi locali, che oggi ospitano una diagnostica per immagini. Ho ancora qualche gettone da qualche parte, con millelire ne venivano tre. Ma per giocare a Virtua Racing ce ne volevano due. 

Si può pensare che queste attività siano morte a causa del fatto che le console da casa un giorno abbiano offerto un divertimento equiparabile. Non sono mai stato d’accordo. Le sale giochi erano ambienti generalmente (e sottolineo questa parola) malsani, e se c’è un assassino, forse è stato il Video Poker. Mi ricordo le file davanti al cabinato di Tekken 3, e gran parte di chi ci giocava, poi tornava a casa per ritornare a giocare al picchiaduro Namco sulla Playstation, quasi fosse un allenarsi per una sfida in pubblico del giorno dopo. Ricordo che le diatribe su quale console fosse migliore tra Mega Drive e Super Nintendo nell’angolo della posta delle riviste, svanirono per lasciar posto a quelle su quale fosse migliore tra Playstation e Nintendo 64.

Il primo gioco che ho davvero amato su Playstation

In un certo periodo, avevamo tutti un Playstation a casa, modificato. Il demo disc, fornito con la console, restava malinconicamente l’unico disco davvero originale, al limite giusto un Wipeout 2097 edizione Platinum, proprio perché almeno ci giochiamo una volta arrivati a casa. Ricordo i campionati a Fifa 98 con amici, e di come volavano ceffoni se non si lasciava abbastanza a lungo Song 2 dei Blur. Ricordo che mio padre, ancora una volta, mi sottrasse tempo e pazienza per giocare tutti i Tomb Raider che poté giocare, e non riuscivo a capacitarmi di come ricordasse le varie sequenze per le acrobazie di Lara e di come invece mi chiedesse quasi quotidianamente il numero di quel canale che trasmette i video musicali che vedete sempre voi giovani.

Ricordo quei poligoni, che erano veramente ovunque e che facevano sembrare ogni personaggio un piccolo carro armato. Il 3D era ancora troppo arretrato per non farmi rimpiangere Yoshi’s Island. Ricordo quando questa convinzione andò in frantumi appena vidi Super Mario 64 a casa di un mio amico, di come ci passassimo le ore canticchiando espressioni dialettali ben poco gentili verso la madre di una persona (sempre presente quando giocavamo) sulle note del tema acquatico. Ricordo di come per anni feci finta di aver giocato a Ocarina of Time, come quando sei l’unico nel gruppo a non aver ancora baciato una ragazza, quando invece lo feci solo a fine ciclo vitale del Nintendo 64, quando un amico me lo prestò con una vagonata di cartucce. In compenso sono quasi certo che alcuni millantavano di aver giocato a Majora’s Mask, mentre io lo avevo giocato e finito per davvero (una volta parlai con una persona che non sapeva che si potesse riportare il tempo indietro).

L’espansione di ram per un bel periodo era un oggetto raro

Ricordo il Dreamcast come la prima console che comprai consciamente, con i frutti del mio lavoro, e magari non al lancio, ma al primo anno di vita comunque. Ricordo il negozio in cui ci sfidavamo senza ritegno a Power Stone e Soul Calibur, negozio nel quale poi finii per essere assunto come commesso, e i cui proprietari erano fautori di lotte all’ultimo sangue a King of Fighters. Ricordo che riuscii a comprare più o meno tutte le console che desideravo avere, ma non il Neo Geo, che continuava a costare come lo stipendio di un calciatore. Ricordo PSO, ovvero Phantasy Star Online, il mio primo vero gioco online, grazie al quale rimediai diverse amicizie, che durano tuttora. Ricordo la faccia di mia madre alla vista della prima bolletta, la mia scena isterica alle minacce di non avere più internet e la desolazione di quando disse “ok, cerca un operatore, facciamo una flat”.

Erano i tempi dei newsgroup, di irc, che però non frequentai mai stabilmente, e dei forum, dove conobbi praticamente quasi tutti i redattori della prima ora di NintendOn, quasi tutti provenienti dalla sezione CubEye, poi diventata WiiEye, del famoso network EveryEye. Ricordo la cecità della gente. La gente che non ha mai giocato a Jet Set Radio e a Space Channel 5, preferendo aspettare l’arrivo di un gioco decente su una console che per un anno buono era solo un lettore DVD con dentro il film Matrix. La cecità di chi pensava che il prossimo Zelda sarebbe stata una cosa mostruosa che avrebbe fatto vincere al GameCube la console war, chissà se qualcuno si è, col senno di poi, vergognato di aver inondato i forum e le riviste di sdegno verso Wind Waker e la sua grafica “da bambini”o se ancora oggi rimpiange quella demo mostrata ai giornalisti in cui Link e Ganondorf se le davano di santa ragione.

Ciao giovanotto, benvenuto nel villaggio degli animali. Scommetto che non sarà l’ultima volta

Ricordo quando mostravo ai miei amici con orgoglio Rhythm Tengoku, un gioco giapponese troppo pazzo per uscire qui da noi, e di come dopo qualche sessione di gioco cantassimo già tutti i motivetti. Ricordo che arrivò un periodo di stanca, uno dei miei pochi periodi di stanca dai videogiochi, in cui niente mi emozionava. E come era possibile stupirsi fino all’emozione dopo Donkey Kong Jungle Beat? Così impressionante graficamente e così immediato, e così geniale, e così (fate voi quali altri aggettivi, se sono positivi vanno bene tutti). Eppure, Iwata mi mostrò la via. Il presidente mi ammaliò con un Game Boy, che non era più Game Boy, ma aveva… un pennino? Un microfono? E che utilità dovrebbero mai avere? La droga, ragazzi, la droga. Non mi ricordo di aver mai giocato così intensamente come ho fatto nei primi periodi di Nintendo Ds, con Elektroplankton, Pac-Pix, e Made in Wario Touch. E poi con Osu! Tatakae! Ouendan! e tantissimi altri giochi.

Poi venne il telecomando. Mesi e mesi a chiederci cosa avrebbe mai fatto, come lo avremmo utilizzato. Mesi e mesi di giochi che facevano dell’originalità il vessillo da portare con orgoglio, una consolina, il Nintendo Wii, che sembrava così Apple, ma che si giocava come i più plasticosi board game MB della mia infanzia. No More Heroes, Trauma Center e Zack&Wiki hanno definitivamente fatto perdere ogni speranza ai miei sul discorso videogiochi, e per mia fortuna non mi beccarono mai in quei momenti, solo, sudato, in mutande, davanti al PC, in chat con persone sconosciute, durante l’E3. Quante risate a suon di SIX HUNDRED NINETY NINE DOLLARS, e quanto imbarazzo davanti a Miyamoto e company mentre fingevano di suonare uno strumento.

Ma quanti giochi pazzi aveva Nintendo Wii?

L’ho già detto, ma lo ripeto: ricordo Iwata. Il modo, tutto suo, di comunicare con noi fan Nintendo, i suoi occhi da bambino colmi di curiosità e meraviglia. Mi ricordo tutti i weird moment durante i Direct, ma anche gli Iwata Chiede, ancora consultabili sul sito Nintendo, la sua voglia di migliorare non solo la sua azienda, ma il settore intero, la sua immensa amicizia con mostri  sacri del settore come Shigesato Itoi e Yoot Saito, magari non programmavano più, ma è stato fantastico leggere i loro aneddoti gaming.

Ricordo Nintendo Wii U, preso con Nintendo Land e Zombi U che lanciavano una promessa di nuovi gameplay mai soddisfatta pienamente, e quanto era goffo, inspiegabilmente comodo, e a bassa risoluzione il suo Gamepad. E ricordo i raduni Streetpass, i primi a cui ho partecipato, e gli innumerevoli che ho organizzato, con l’ansia di beccare nuovi pezzi di puzzle durante le fiere del fumetto, o di riunirsi in una stanza a giocare in 8, scusate lo devo scrivere grande, IN OTTO a Big Brain Academy. Lo so, era un gioco del vecchio Nintendo DS, ma non era un vero party multiplayer senza di lui.

La mia devozione verso Big Brain Academy mi ha fatto comprare il card game… in olandese!

Ricordo come se fosse ieri, e sono già passati più di tre anni, il momento in cui ho portato Nintendo Switch a casa e il primo avvio di Breath of the Wild, in barba a 1-2 Switch da recensire. Ricordo tutte quelle volte in cui mi sono detto che niente mi avrebbe più sorpreso, emozionato ed entusiasmato come la prima volta che ho salvato Zelda, da piccolo. Come la prima volta che sono entrato in un castello, per poi sentirmi dire che la principessa non era lì. Ma poi arriva sempre un Super Mario Galaxy. Poi arriva sempre un Breath of the Wild. Poi arrivano giorni come questi, in cui ti senti un po’ strano, e hai voglia di ricordare. Ma il ricordo più bello, è sempre quello che ho nel cuore, ed è quello che non ho ancora vissuto.

Perché c’è differenza tra nostalgia e consapevolezza. Ho vissuto tanto, e ne avrò ancora da vivere, se sono fortunato anche a lungo, l’importante è che continuerò a creare oggi momenti che sarà bello ricordare domani, perché è bello doppo il morire vivere anchora.

PS: In questo pezzo di carta virtuale mancano tanti aneddoti, tanti ricordi. Non potevo metterli tutti, ne ho messo alcuni, e non è detto che siano i più significativi.

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