Driiin… Driiin…
È buio pesto.
Apro una porta.
Giganteschi pixel colorati danno vita ad un cavallo, un gallo e un gufo. Se ne stanno in poltrona e mi fissano. Mi accorgo che sono uomini con indosso una maschera. Non sono molto gentili, sembrano infastiditi, nauseati dalla mia presenza. Mi conoscono, ma io non conosco loro.
Soprattutto, non conosco me stesso.
Di punto in bianco mi ritrovo in uno squallido appartamento, c’è una camicia insanguinata afflosciata sul pavimento. La segreteria telefonica mi informa che i miei biscotti sono pronti, un pacco fuori la porta mi indica un obiettivo da eliminare. Al suo interno c’è anche la maschera di un gallo.
Si comincia bene insomma, con una manciata di cookies inzuppati di sangue.

La mia auto si ferma davanti a un appartamento, colma di tizi vestiti di bianco. Mi affaccio dallo spigolo della porta, tempo di un battito di ciglia e sono in una pozza rossa. Capisco subito che si tratta di un top-down shooter di quelli tosti, quelli da one shot. Il primo che vede l’altro ha salva la pelle. Il problema è che: 1) io sono solo contro tutti e che 2) loro fanno scattare il collo alla minima sollecitazione.
Il tipo di arma scelto può segnare il mio destino. Pugnali e mazze da baseball compiono il loro sporco lavoro, ma solo a distanza ravvicinata. Armi da fuoco fanno stragi, ma il prezzo da pagare è alto, i tipi nelle vicinanze mi sono addosso in un nanosecondo. Le porte si rivelano valide alleate: posso aprirle mentre i miei obiettivi ci passano davanti per stordirli e finirli sul posto a pedate nelle giugulari.
I comandi sono perfetti: con l’analogico sinistro muovo il mio flashatissimo alter ego, con quello destro direziono il fuoco. Con L posso raccogliere le armi da terra o lanciarle via, con R premo il grilletto, calo mazzate sulle loro teste o affondo il pugnale. Tutto molto intuitivo, e con quella musica tecno-house in sottofondo sembra quasi di star ballando in discoteca anziché sbudellare altri esseri umani.

Insomma, Hotline Miami mi conquista in breve tempo. Dietro di me, dopo qualche ora, c’è una scia di morte ingiustificata, malata, ma assuefacente. C’è una storia che non ho compreso in toto, ma tutto sommato riesce a creare il giusto mood. C’è anche qualche bug che mi costringe a restartare qualche missione, persino a carneficina ultimata, una roba affatto piacevole. Un port non perfetto, ma che, tirate le somme, si tiene in piedi da solo con uno stile pazzesco.
Passo al sequel. Tanto sequel non sembra, almeno è ciò che penso durante i primi minuti di gioco. Nulla è cambiato, l’impianto artistico è rimasto quello, i controlli non si sono smossi di una virgola, l’atmosfera è ancora malsana.

Eppure, devo ricredermi dopo poco.
Il feeling è diverso. I nemici sono più reattivi, le mappe più varie, così come le armi. Posso controllare due personaggi nello stesso tempo, arma da fuoco con un tasto e arma bianca con l’altro. Persino la soundtrack sembra superiore, il che ha del clamoroso.
La storia, con i suoi protagonisti meglio caratterizzati, pare ingranare con maggiore decisione, ma resta comunque un contorno ad un gameplay troppo “ingombrante”. La difficoltà raggiunge picchi che il prequel nemmeno si sogna, le D fioccano senza pietà. Mi chiedo se non sarebbe opportuno rivedere certe valutazioni, ma mi diverto lo stesso, quindi incasso le bocciature senza tenere il broncio.

Arrivano i titoli di coda, per la seconda volta. Mi chiedo come abbia fatto a fare a meno di tutto questo sangue gratuito, per tutti questi anni. Non ho certo sviluppato strane manie come alcuni “giornalisti” suppongono, semmai una strana dipendenza dal 4-(1R-idrossi-2-(N-metilammino)etil)benzen-1,2-diolo. Che poi è il nome dell’adrenalina.