Non si vive di soli Kamiya
Mentre raccoglievo le idee per stendere questa complessa recensione, ho letto una domanda all’apparenza semplice che però è stata capace di mettere in moto numerosi ingranaggi nell’analisi del titolo: “Astral Chain è una perla imperfetta ma godibile come Wonderful 101?”.
Caspita. Sì, no, forse. Il lavoro affidato a Takahisa Taura, in precedenza Designer di NieR: Automata e qui Director, può effettivamente esser considerato “sperimentale” se paragonato a produzioni più standardizzate e riconoscibili quali Bayonetta o la già citata opera di Yoko Taro (sicuramente meno bizzarra del precedessore), ma non necessariamente estroverso o fuori di testa.
La parola d’ordine è varietà, di situazioni e di gameplay, per creare un ibrido action/jrpg in cui non sopravvenga mai la monotonia e il giocatore possa essere accompagnato gradualmente dal prevedibile inizio al pirotecnico finale. Il mix sarà riuscito?
Si comincia, in un certo senso, “in media res”, con un filmato che ci introduce ai cambiamenti incorsi nel mondo degli esseri umani, costretti a creare questa città/stato chiamata “Ark” a seguito delle minacce provenienti dalla misteriosa “Dimensione Astrale” e dalle creature che lì vivono, le Chimere, in grado di raggiungere il nostro piano di esistenza grazie a portali che appaiono in modo del tutto inaspettato. Questa diffusione è subdola, imprevedibile e costante, portando tra i cittadini residui di energia astrale che li indeboliscono o possono addirittura mutarli in abomini (umani potenziati e deformi) se l’infezione supera i livelli di guardia.
Niente flashback chiarificatori, niente spiegoni eccessivi, così da passare subito al gioco: entreremo nel vivo impersonando uno dei due fratelli Howard (quello che sceglieremo nell’editor) intento a raggiungere gli altri membri della Neuron, il corpo speciale creato per contenere la minaccia Astrale.
La trama e la narrazione di Astral Chain vivono di “non detti”, di sospensioni e di buchi lasciati per semplificarsi la vita e non farsi intrappolare nell’obbligo di creare un contesto massiccio in cui ogni singolo dettaglio debba essere giustificato, motivato e contestualizzato. Ciò che è chiaro è come il nostro sia il ruolo del prescelto di turno, per via della nostra “particolare” genesi (gli accenni avvengono fin dal primo capitolo, niente spoiler) e che ci troveremo ad essere il perno su cui ruotano gli eventi, grazie alla nostra innata capacità di controllare i Legion – chimere “schiavizzate” tramite una “Catena Astrale” creata dalla tecnologia sviluppata dal team di ricerca del professor Calvert, comandante della Neuron – che ci caratterizza come “Legionis“.
Nel mentre il nostro gemello si offrirà come altra faccia della medaglia e al tempo stesso come voce narrante, in quanto purtroppo il nostro avatar è totalmente privo di linee di dialogo. Un difetto enorme per quel che mi riguarda, trattandosi di un gioco in cui l’emotività in sinergia con l’azione la fanno da padrone: niente catchphrase irridenti o epici confronti con i villain, ma solo una gran quantità di cenni con la testa o denti digrignati.
Ce ne faremo una ragione, ma è un gran peccato.
La vita su Ark non è troppo diversa da quella del nostro mondo – immaginandolo traslato negli anni 2070 – così come il lavoro di poliziotto, anche se membro di un reparto speciale come quello della Neuron: in nome della sopracitata varietà, i capitoli in cui è suddivisa l’esperienza offrono una grande quantità di attività, siano queste obbligatorie od opzionali, e molte di queste sfociano nella banalissima assistenza ai cittadini. Dopo essere partiti col botto, tra motociclette velocissime, mostri e disastri cittadini, ci viene ricordato come accompagnare un turista smarrito o portare il gelato ad un bambino sia importante quanto impedire che gli abitanti delle città vengano uccisi, infettati o trascinati nel mondo astrale. E che le cose vadano fatte contemporaneamente.
Io sono Batman
Menare le mani in Astral Chain non è tutto, perché ogni intervento della Neuron prevede l’analisi degli indizi sul campo prima di agire, raccogliendo le informazioni grazie all’avanzatissimo sistema computerizzato di realtà aumentata, che risponde al nome di IRIS e si dimostra perfetto complemento per il nostro Legion. Grazie a questa meraviglia tecnologica possiamo analizzare e seguire le tracce delle chimere o raccogliere dati dalle telecamere e ricostruirli in 3D, mentre sfruttiamo le capacità delle creature al nostro comando, come origliare conversazioni o disintossicare gli umani infetti. Ogni azione che compiamo ci consegna una parola chiave che andrà a riempire un elenco utile a tracciare un’idea dell’accaduto e consentirci di proseguire. La nostra capacità di scegliere il giusto indizio per completare la ricostruzione del nostro collega/compagno di turno non inficia sul prosieguo ma solo sul punteggio di fine missione.
Non bisogna però sottovalutare nessun compito, dal più importante al più veniale, in quanto ogni risultato va ad aggiungersi al nostro punteggio sul campo (da spendere in potenziamenti e oggetti) e consente di velocizzare l’aumento di grado, fondamentale per far crescere le statistiche di base del personaggio. Anche raccogliere una lattina da terra e buttarla nel cestino più vicino può fare la differenza (o la differenziata…).
Nel momento di entrare in azione scopriamo quanto questo Astral Chain porti con sé l’esperienza di Platinum Games nei giochi d’azione ma al tempo stesso provi a proporre qualcosa di più impegnativo a livello gestionale. Se il controllo del personaggio ricorda un po’ NieR: Automata per inerzia e responsività, le sfide nemiche invece sono ritmante più in linea con Bayonetta 2.
Il distacco netto dalle precedenti produzioni si ritrova nella gestione del Legion, vero protagonista della scena: premendo un tasto è possibile evocare questo nostro compagno (su un totale di 5, ruotabili a scelta in ogni momento) che tendenzialmente agisce da solo ma che compie azioni specifiche a seconda dei nostri comandi.
Ma non di solo supporto si tratta: tenendo premuto il tasto atto all’evocazione, perdiamo il controllo sulla telecamera che si “sacrifica” per consentirci di muovere direttamente il Legion sul campo di battaglia, consentendogli di compiere azioni utilissime come intrappolare i nemici o intralciare le loro mosse utilizzando la sua stessa catena. È possibile anche sfruttare la mobilità della creatura per fargli raggiungere posti a noi inaccessibili per poi farci trainare sul posto con la pressione di un tasto – ma solo se in linea d’aria non ci sono ostacoli.
Astral Chain rappresenta il paradigma dell’action sinergico, in cui il nostro avatar non diventa semplicemente nostra estensione virtuale in un diorama colmo di sfide ma muta in un soggetto che, pur mantenendo il proprio ruolo cruciale, condivide la scena con un altro elemento da controllare in contemporanea, veicolo unico per l’ottenimento dei risultati migliori. Una sfida non da poco nel gaming moderno.
Compagno fidato, ma incatenato
Non c’è niente come Astral Chain: sebbene qualcuno in passato abbia già provato ad abbozzare un action che unisse controllo del personaggio e unità di supporto (Chaos Legion, Capcom, 2003), l’opera di Platinum chiede al giocatore di cambiare registro, rimescolando la funzionalità dei lobi del cervello: l’istinto è una brutta bestia, in particolare nei giochi d’azione con elementi derivativi, e i primi istanti possono essere difficili da digerire. In particolare perché, mentre ci viene chiesto di imparare qualcosa di profondamente nuovo, il nostro insegnante verifica costantemente la nostra preparazione senza pietà.
Non per questo il gioco è necessariamente più difficile di altri, è solo meno accessibile nelle prime fasi. Il numero di oggetti curativi a disposizione e il defibrillatore integrato nel nostro equipaggiamento concedono un discreto margine di errore a chi abbia semplicemente interesse a proseguire nella trama senza ricercare i punteggi migliori (in classico stile platinum). Proseguendo e migliorando l’equipaggiamento è possibile estendere il numero di morti concesse, che aumenta in modo considerevole abbassando il livello di difficoltà a Facile o Molto Facile.
Ci viene inoltre proposto un consistente tutorial fin dall’inizio, permettendoci di esplorare le possibilità offerte dai Legion a nostra disposizione: inizialmente ci si diletta nel lanciarlo all’attacco come “fuoco aggiuntivo” alle nostre dotazioni (pistola, manganello e manganello potenziato), cogliendo gli hint visivi per attivare le combinazioni speciali d’attacco (un lampo luminoso evidente). Con un po’ di coraggio invece impareremo a muoverlo sul campo per accerchiare i nemici, intralciare i loro passi o sfruttare il miglior posizionamento per infliggere danno critico (tendenzialmente alle spalle).
Avanzando nella trama la nostra schiera di Legion si completa, aggiungendo opzioni a distanza grazie ad Arco, la possibilità di tracciare nemici sfuggenti con Bestia, aprirsi gli spazi tra gli ostacoli con Possente e sfruttare formidabili abilità di difesa di Ascia: l’apprendimento è graduale e legato ai nostri nemici, non sempre superabili con la forza bruta.
Ogni Legion ha abilità e mosse speciali dedicate, utili a superare enigmi nelle fasi esplorative o avere la meglio di fastidiosi avversari: il Legion Spada, ad esempio, ha a disposizione un “taglio di fase” che è in grado di interrompere i flussi di energia. La cosa può essere utile nel mondo reale per disinnescare una bomba, mentre in quello astrale è cruciale per interrompere il collegamento tra una Chimera d’attacco e l’altra, più piccola e indifesa, capace di renderla invincibile. Queste Chimere di supporto possono volare in alto (un lavoro per Arco) o nascondersi sottoterra (pane per le zampe e il fiuto di Bestia), rappresentando forse l’inconveniente più fastidioso nel gioco. Le carte vengono rimescolate spesso e sebbene è chiaro troverete il vostro Legion preferito, imparerete a “swtichare” tra loro con buona frequenza.
Le possibilità sono tante, ma nei primi 2/3 dell’esperienza il gioco assume dei connotati un po’ troppo metodici per entusiasmare: la minaccia astrale crea problemi nel mondo reale, Neuron viene chiamata sul posto ad indagare (con sezioni sempre più lunghe di raccolta indizi) e poi solo alla fine entra in gioco l’azione, accedendo ad un portale del mondo Astrale a cui è riconducibile la situazione.
Il ritmo accelera e prende brusche frenate non proprie dei giochi Platinum, arrivando ad assurdi quali la lettura obbligatoria di file per aggiornarsi sugli eventi (e risparmiare sulle cutscene?) o a richiedere spudoratamente al giocatore di compiere missioni secondarie prima di fiondarsi all’attacco (spoiler – dopo una missione fatta tanto per far contento il gioco, ho trovato FOLLE non proseguire nella trama… probabilmente gli agenti della Neuron sono ancora lì che aspettano) anche se la fine del capitolo precedente e le ultime scene non hanno fatto altro che pomparci adrenalina nelle vene.
Per gran parte del gioco le sfide più importanti si svolgono nel mondo astrale che, pur reinterpretato ad ogni occasione, si mostra sempre con le stesse palette rossastre e geometrie copincolla, a voler ricordare un mondo digitalizzato fatto di dati e informazioni in costante fluttuazione. Il fascino svanisce un po’ dopo le prime 2/3 volte, ma almeno con l’aumento delle nostre capacità ci vengono poste dinanzi sfide aggiuntive per il superamento di questi veri e propri dungeon in cui bisogna trovare passaggi, aperture e percorsi superando veri e propri puzzle ambientali degni di uno Zelda.
Un mondo non troppo grande, quasi portatile
Al tempo stesso ci troviamo a rivisitare più volte gli stessi posti nel mondo reale, evidenziando così forse l’unico reale difetto del titolo: la mancanza di varietà di ambienti. La cosa si risolve dalla seconda metà in poi, quando entrano in causa personaggi, città, fazioni e aree totalmente nuove (e indispensabili per il prosieguo della trama), quindi è compito del giocatore non farsi abbattere dall’inizio non troppo pirotecnico, in particolare perché per tutto il titolo l’esplorazione libera è limitata al quartier generale della Neuron ed è possibile visitare le varie aree solo quando ci viene assegnata una missione di storia (ouch). Ogni capitolo diventa così a “tenuta stagna” con le sue sottomissioni e percentuali di completamento indipendenti, per fortuna verificabili dal nostro PC che ci consente di rivivere ogni momento passato per migliorare punteggi e percentuali.
Varietà e imprevedibilità aiutano a per fortuna dare corpo ad un mondo che ha qualche limite di espressività: come “forze dell’ordine” dobbiamo prestare attenzione a non danneggiare il bene pubblico e dobbiamo attendere pazientemente il semaforo verde per attraversare. In ogni momento c’è qualcuno che può avere bisogno di noi e ci consente di sfruttare i nostri Legion per catturare criminali in fuga (la catena è utilissima) dopo averli smascherati origliando a distanza, così come ci possiamo dilettare nello stealth recuperando un gatto smarrito amante delle lattine vuote.
Astral Chain dà il meglio sé affrontato quasi come un JRPG, completando le missioni secondarie quando ci vengono poste (no, non è possibile prenderle in carico in un capitolo e risolverle dopo) e ingaggiando con positività le variazioni di gameplay tra corse in moto, ostacoli da schivare, indovinelli, collezionabili, etc. Completare un capitolo al 100% e con valutazione S+ è un’impresa difficilmente realizzabile al primo colpo, se non impossibile, in quanto prevede l’esplorazione totale degli ambienti, la raccolta di tutti i residui astrali (nel mondo reale e non) e un’esecuzione praticamente perfetta. Unico aiuto, l’assenza del tempo tra le variabili in causa, cosa che testimonia la visione più rilassata e contemplativa del game design.
Consigliabile è dunque spendere molto tempo a raccogliere oggetti, affrontare qualsiasi nemico che ci troviamo di fronte e, perché no, provare a ottenere gli “achievement” interni al titolo: ogni azione porta all’ottenimento di punteggio e materiali (di varia rarità a seconda della sfida da superare) indispensabili per potenziare lo skill tree dei singoli Legion, così come sbloccarne e attivarne le abilità – passive o attive. Qualche punto di difesa e attacco in più, come anche solo un paio di nuovi attacchi da lanciare cambiano davvero il nostro approccio al gioco. Ad esempio, l’incatenamento dei nemici non è troppo complesso, ma può non essere una mossa di facile attuazione mentre si è impegnati nel crowd control e ci toccherebbe quindi sacrificare mobilità e telecamera: ecco dunque arrivare in nostro soccorso l’incatenamento automatico, come abilità assegnabile ad un tasto, consentendoci di rimanere concentrati su chi cerca di farci la pelle.
Per quanto il mondo di gioco non goda del fascino delle moderne città virtuali, vive e pulsanti, il quartier generale e i suoi dipendenti garantiscono una buona dose di diversificazione tra modelli comportamentali ed estetici, con accenni di multiculturalità (Maximillian, Jin e Alicia sembrano futuristici testimonial Benetton), azzardi cromatici (l’adorabile duo Olive/Brenda, che mi ha ricordato marginalmente Devola e Popola, su tutti) e comic relief, affidati alla procace ma imbranata Marie. Ben presto si palesano i limiti di un contesto variegato ma “chiuso”, fortunatamente completato a dovere da ciò che veniamo a scoprire nei capitoli più avanzati: guardare il mondo da un oblò è ben diverso che visitarlo, anche se per poco.
Superata la sfida mentale, tra immersione nel mondo e metabolizzazione di ritmi atipici rispetto al portfolio Platinum, possiamo goderci a pieno la fusione tra azione e visione che prende forma dal character design di Masakazu Katsura (Zetman, Video Girl Ai, DNA2, etc.) e si realizza in un sistema frenetico e dalla scala sempre crescente: i combattimenti con i minion sono spesso circoscritti e ci mettono alla prova nell’utilizzo di specifiche abilità, mentre con i boss ci viene proposta una creatività d’interpretazione decisamente appagante. Ci si muove su livelli di profondità e di altezza, si mette in discussione l’area di gioco e non si può mai abbassare la guardia.
Uno spettacolo domestico, sontuosamente Platinato
Raggiungere il nemico di turno può non essere semplice, richiedendo al giocatore di affrontare pericoli ambientali (pozze collose o sbuffi velenosi) superabili con specifici Legion senza che questi necessariamente si ripresentino come pattern del guardiano di fine livello: trattasi di un topos quasi abusato nel genere, che qui invece lascia spazio alla sorpresa e all’improvvisazione.
In breve difficoltà e scala crescono vertiginosamente, tra avversari che cambiano zona, che diventano minacce ambientali, che cambiano di fase anche in momenti inaspettati… tutto nell’ultimo terzo dell’avventura. E ne vale dunque la pena di soffrire un po’ di carburazione iniziale se il risultato è questo, se le imprese che compiamo sembrano uscire da un frullatore in cui abbiano inserito Evangelion, l’Attacco dei Giganti, NieR: Automata e Bayonetta. La mancanza di voce del protagonista inizia a pesare meno quando il ritmo si alza e la sorpresa ti coglie, soprattutto dopo aver sbloccato il nostro potenziale massimo di Legionis, che ci consente di cambiare davvero l’esito di una battaglia – e non vi spoilererò in che modo, essendo questa capacità disponibile solo nelle ultime fasi.
L’entusiasmo sarà tale che vi ricorderete di ciò che non avete fatto prima, delle aree di inizio gioco accessibili solo con Legion di cui non disponevate al tempo (evviva il “backtracking”), dei nemici che vi hanno fatto sudare e che ora potreste asfaltare con i vostri nuovi poteri. Dopo aver concluso la prima run tra le 15 e le 20 ore di gioco, la voglia di riprendere in mano il titolo per completarlo e migliorarsi è tanta, sebbene manchi un vero e proprio “nuovo gioco +” e ci si debba accontentare del classico replay dei capitoli. Anche se poi, ad essere sincero, c’è qualche sorpresina extra.
Giochi come Astral Chain ti fanno davvero domandare quanto in là si possa spingere la visione giapponese su hardware limitati e – al tempo stesso – quanto piacevole sia trovarsi produzioni di livello home su uno schermo portatile.
Sebbene i compromessi tecnici siano evidenti, in particolare per quel che concerne risoluzione non sempre ottimale (probabilmente adattiva) e carenza di antialiasing, il gioco risulta estremamente godibile in modalità docked (dove la pulizia è al suo massimo) e comunque piacevole in portatile nonostante i compromessi tecnici: non venendo meno alcuna fruibilità, campo visivo o riduzione del dettaglio relativo a nemici e hud, anche la modalità handheld è adatta al completamento dell’esperienza.
Di certo però se si dispone di un pannello molto grande e dotato di ottimo scaler, non utilizzarlo per giocare ad un titolo così brillante e visivamente ricercato sarebbe un delitto.
Dopo tutti questi caratteri spesi, c’è da trarre qualche considerazione non necessariamente positiva: la sperimentazione e l’originalità non sempre vanno di pari passo con la fruibilità e questo in particolare si nota nella gestione di telecamera e distanze con i nemici. Il lock-on presente, funzionale e facile da passare da un nemico all’altro, non impedisce alla visuale di incartarsi dietro a muretti e pareti o, peggio ancora, di farsi impallare dal Legion stesso. La carenza si visibilità rende meno leggibili gli hint di attacco dei nemici che pur essendo spesso plateali a volte vengono proprio celati dal traffico a schermo, principalmente a causa della scelta di utilizzare un “glow” dello stesso colore delle chimere (il rosso) per anticipare la loro mossa. Su un singolo nemico la cosa è gestibile, ma quanto si è in tanti e la telecamera non è posizionata a dovere sono tanti i casi in cui si viene colpiti con l’impressione di non aver potuto fare altrimenti.
A livello narrativo invece bisogna farsi coraggio e mandare giù la corsa finale che profuma di semplificazione e di poca voglia di trovare un intreccio causa/effetto più prominente: il nemico è quello, affrontalo fino al prossimo turning point di trama, fa niente se le motivazioni sembreranno fumose al pari delle possibilità di redenzione dello stesso una volta sconfitto. Ti hanno detto di farlo, fallo. Astral Chain ha il retrogusto di un titolo creato sulle meccaniche di gioco (forse idealmente ancora più coraggiose di quanto poi visto nel finale, magari sfruttando i Joy-Con separatamente… ma non lo sapremo mai) a cui poi s’è dovuto cercare un vestito, il migliore possibile ma non necessariamente quello che lo fa risplendere al meglio.
Eppure alla fine dei conti non si può che uscire soddisfatti da questo tuffo nel mondo astrale, di qualunque cosa si tratti: cosa sia successo realmente al nostro nemico, quale fosse il suo obiettivo, perché esiste questo mondo fatto di quadretti, cubi e interferenze… il retrogusto che rimane in bocca è lo stesso di un’ottima portata a cui però mancava il giusto condimento. Ma siamo sazi e paghiamo il conto volentieri.
L’aspetto prettamente ludico funziona e diverte, soprattutto il giocatore che non si vuole fermare al semplice completamento della trama e vuole tornare a ripercorrere i vari stage. Sorvolerei invece sulla modalità multigiocatore, forse ancora più superflua e ingestibile di quanto visto in Super Mario Odyssey: il tasso di coordinazione e velocità comunicazione richiesta tra i due giocatori mi fa pensare che sia stata studiata esclusivamente per dei gemel- ah, già…
Da qui alla fine dell’anno difficilmente arriveranno su Nintendo Switch titoli in grado di offrire un’esperienza anche solo paragonabile ad Astral Chain e anche con l’avvento dell’atteso Bayonetta 3 potremo comunque considerare le due produzioni non sovrapponibili. Che dire dunque?
“Comprate Astral Chain”®