Tutti abbiamo paura. Tante volte non ci piace ammetterlo, perché ci fa esitare, palpitare, tremare, e la nascondiamo pensando sia una nemica; ma è un’alleata, veramente. Se la ingeriamo nella giusta modalità, ci nutre di almeno due differenti virtù. C’è la saggezza, l’analizzare le situazioni in base ai potenziali danni che potremmo subire e quindi agire in maniera ragionata, per paura appunto di ciò che potrebbe succedere altrimenti. La saggezza è un buon modo per allontanare la paura; che però così non muore. L’altra è il coraggio, che a volte è l’esatto opposto della saggezza e fa agire imprudentemente, come gli eroi. Ma è questo, che uccide la paura.
Don Abbondio diceva che “il coraggio, chi non ce l’ha, non se lo può dare”. Shinji Mikami non la pensa così, ed è per questo che è nato Resident Evil. Più che il gioco della paura, sarebbe corretto definirlo il gioco del coraggio. Difatti il creatore della serie tiene particolarmente alla definizione survival horror, che non a caso contiene al suo interno la parola del campo semantico del coraggio, sopravvivere, che precede quella della paura, orrore. In un’intervista di qualche anno fa, asseriva che un survival horror è tale solo quando il giocatore “affronta e supera la paura”. Siamo agli antipodi rispetto all’espressione del personaggio manzoniano; d’altronde l’ultima volta che ho controllato, non c’erano zombie ne I Promessi Sposi.
Resident Evil uscì su PlayStation nel 1998, e la console Sony era così diffusa che tra i ragazzini ognuno di quei titoli che hanno poi fatto la storia dei videogiochi era un caso da trattare con amici e coetanei. Avevo nove anni, molti i piccoli giocatori terrorizzati, pochissimi coloro i quali, intrepidi, s’erano addentrati fino alla fine della villa Spencer. Io facevo parte dei primi, per via di quel senso di solitudine, del silenzio, dell’imprevedibilità dei nemici, di quei maledettissimi mastini napoletani che zompavano dalla finestra, maremma impestata quanti anni di salute mi hanno tolto loro. Ci giocavo insieme al mio compagno videoludico Ninì, ma non arrivavamo mai granché lontano; peggio avrebbe fatto solo Silent Hill. Ma le paure vanno affrontate e superate, no?

La cosa che si nota subito appena acceso Nintendo Switch è come l’atmosfera non sia minimamente mutata. Nei panni di Jill o Chris, la magione degli esperimenti della Umbrella continua a far paura toccando le stesse corde del passato. È la solitudine la sensazione che più si sperimenta nel primo RE: stanze da esplorare nel silenzio avvolti da una luce sempre fioca, calda o fredda che sia. Questo feeling è alimentato dalla trama e dagli enigmi, fautori di una sensazione di mistero sempre presente. Infine l’imprevedibilità dei nemici, a braccetto con il quantitativo limitato di munizioni e cure, mantengono fedele il concetto di survival. I rompicapo rimangono ancora accattivanti, mentre la narrativa, abituati come siamo alle storie videoludiche odierne, si riscopre naïve in certi passaggi, ma sono i dettagli che fanno la differenza, le lettere, le storie di chi è rimasto invischiato o vittima negli esperimenti genetici, tutta punteggiatura scritta col sangue che rende più spaventosa il foglio già lugubre.

L’atmosfera, insomma, si conferma e si mantiene come la colonna portante del gioco. All’uscita, determinante fu la realizzazione grafica, divenuta iconica, e ci riferiamo ovviamente agli sfondi prerenderizzati. Questa remaster HD affronta il passaggio tecnico in un modo un po’ ambiguo. Tutto ha ricevuto una bella svecchiata, dai modelli e animazioni dei personaggi alle armi agli sfondi, ma non dobbiamo dimenticare che ciò non è affatto una novità, dato che il titolo venne già riproposto su Nintendo Gamecube. Ora tutto è più pulito e fluido, ma non si può gridare al miracolo. Ottima pensata quella di lasciare in immagine PlayStation alcuni frame, un vero tuffo nei ricordi. Il risultato rimane tuttavia quello di una fatica parziale: non stiamo parlando di un prodotto graficamente scarso, si chiaro, ma di certo poteva essere fatto di più.
Le musiche e gli effetti sonori invece non sono stati minimamente scalfiti dal tempo: ingannevoli quando tranquilli, ansiogeni quando tesi, restano nella mente quando, una volta spenta la console, si attraversa un porta in una stanza buia.
Lo stile grafico determinò un tipo di gameplay molto macchinoso, che oggi risulterebbe insopportabile a chi non abbia giocato allo sfinimento all’originale negli anni ’90. Capcom ha ben pensato di inserire tra le opzioni anche una modalità moderna, che attualizza i movimenti e li rende commestibili al giocatore d’oggi, sebbene talvolta capiti di non capire da che parte si stia andando, magari quando a causa di un non morto siamo colti dal panico. Gli scontri, parte meno centrale rispetto agli enigmi, sono soddisfacenti, e l’esplorazione rimanda davvero alla discesa dantesca; preparatevi però ad un backtracking come non se ne vedono più tanti.

L’avventura è completabile in una decina di ore, ma alla prima esperienza il tempo che trascorrerete saltando dalla sedia sarà più lungo. Ciò rappresenta un buon grado di longevità, ampliato per i più accaniti avversari di zombie, coi celebri finali alternativi, i differenti di difficoltà, i costumi e gli obiettivi.
Di spaventoso però c’è anche il prezzo: €29,99 risultano eccessivi, e paragonandolo al prezzo per le altre console, e perché di un rifacimento non inedito si tratta. Ciò fa abbassare di mezzo punto il voto di questa recensione.
Ma ciò che è appurato è che RE resta il re. Dopo oltre vent’anni, la villa Spencer rimane uno dei posti più spaventosi delle nostre console, in un remake ben fatto che si regge su un’avventura che non vuole morire, proprio come i suoi iconici mostri. È bello avere il coraggio di farsi spaventare.