Quante volte scommettiamo, nella nostra vita? Non è facile dirlo. Che differenza c’è tra chi scommette un portafogli alle slot machine, e chi invece scommette su sé stesso cimentandosi in un percorso, ad esempio di studi, pieno di difficoltà? Non sono entrambi scommettitori? Che si tratti di quadruplicare il denaro puntato, o conseguire la laurea o una posizione professionale, la definizione del risultato è sempre quello di scommessa vinta. Così come l’opposto, perdere tutta la moneta o mollare gli esami al secondo anno, varrebbe a dire di aver perso, almeno quella determinata scommessa.
Chad e Jared Moldenhauer, i due fratelli canadesi dietro lo Studio MDHR, hanno scommesso tutto sulla loro idea, sul loro progetto. Tutto, nel senso di aver messo in ipoteca la propria casa per avere il budget necessario. Questo è il genere di scommessa che il dialetto calabrese esprime limpidissimamente con l’espressione o sajj’ o affunn’: o la tua barca rimane in superficie, o affonda. Il genere di scommessa che fanno i disperati o i sognatori più ardenti. E infatti si potrebbe dire che in ogni sogno c’è la disperazione del contrario, e in ogni disperazione c’è il sogno del suo scioglimento. Non a caso, l’autore giapponese Abe Kōbō intrecciava i termini speranza/disperazione. Scommesse del genere non siamo tutti disposti a giocarle, nel bene e nel male, s’intende.
I due fratelloni non solo l’hanno giocata, ma per forse esorcizzarla l’hanno infusa nel loro lavoro. La trama del loro boss fights game altro non racconta che di due fratelli, Cuphead e Mugman, incastrati in un’impresa più grande di loro, a causa di una scommessa azzardata.
Tutto torna: due fratelli, una scommessa e un lavoro immenso da sbrogliare per non affondare (art design e programmazione per i due sviluppatori, sconfiggere dei mostri con superpoteri per le due tazze). Per volere continuare col parallelo, associare poi il diavolo alle banche è un attimo, a seconda dell’idea di ciascuno di noi.
Com’è andata a finire questa scommessa un po’ lo sappiamo tutti, essendo datata 2017. Ma è una storia che non perde bellezza ogni volta che si racconta.
Era giusto che tale sforzo lo sentissero anche i destinatari dell’immenso lavoro di Studio MDHR, noi videogiocatori. Uno dei due aspetti che nel pensiero collettivo caratterizzano Cuphead, è la difficoltà. Al di là degli estremi che al riguardo si son visti si vedono sul web, i video di gamer che impazziscono davanti al monitor da una parte e l’incredibile disagio del giornalista di IGN Dean Takahashi dall’altra, la percentuale di giocatori che porta a termine il gioco è molto inferiore rispetto agli effettivi acquirenti, percentuale che si assottiglia ulteriormente nelle modalità più ardue.
Ma difficile è un altro termine ambiguo, proprio come scommessa. Cuphead è, più correttamente, sincero. Come un amico, che ci mette di fronte ai nostri errori senza addolcire la pillola, e magari d’impatto ci fa restar male perché è difficile accettare subito ciò che ci dice appunto perché è sincero, ma son quelli gli amici che ci spingono a migliorare.
Nelle boss fight, cardine del gioco, nei livelli run’n’gun in cui acquisire le monete da spendere per i power-up, nelle sezioni d’abilità coi fantasmi per ottenere le mosse speciali, Cuphead ci dice una sola cosa: impegnatevi. A pensarci, è ciò che ci dice quasi tutto quello che è ludico. Forse non esistono giochi facili, nel senso che in ogni gioco si può diventare più bravi. Magari un gioco ha un approccio semplice, come il calcio: in tanti, da piccoli, impieghiamo tre secondi a prendere familiarità con il pallone tra piedi, ma questo non significa che tutti poi vinceremo il pallone. Ecco, Cuphead può risultare ruvido fin dalla prima accensione, ma se accettiamo la sua scommessa, se puntiamo il nostro impegno, che viene dall’amore che abbiamo per i videogiocatori, la vittoria è pressoché assicurata. Le soddisfazioni, non dimentichiamolo, van sudate.
La seconda caratteristica distintiva del gioco,seconda non per importanza ma semplicemente per la struttura di questa recensione, è la direzione artistica.
Credo davvero che sia stato detto quasi tutto sullo stile di Cuphead e i rimandi ai cartoon anni ’30 da cui prende a piene mani, ergo il vostro redattore non sente la necessità di dilungarsi su ciò che potete ineluttabilmente constatare con i vostri occhi (a tal proposito, vi rimando al video dello youtuber Dario Moccia, una ricerca certosina per un filmato encomiabile). Piuttosto, sostengo che vada spesa qualche parola sul come un tale capolavoro di arte digitale sia stato possibile. Cinque anni di un lavoro ininterrotto, con le schiene gobbe sui tavoli da disegno o sulle tastiere dei pc. E non erano neanche due sviluppatori Chad e Jared: il primo alle prese con la sua compagnia di marketing e web design, mentre il secondo lavorava nel campo delle costruzioni. La mattina in ufficio o in cantiere, la sera a cimentarsi in questa scommessa. Ma è chiaro. È chiarissimo, se pensiamo al movente di questo doppio lavoro non richiesto. Chad e Jared non volevano far altro che miscelare ciò che amavano fin da bambini: i cartoni animati anni ’30 e i videogiochi. Ora tutto è chiaro, ora si spiegano quei 5 anni di sforzi in apnea: la passione. Quanti di noi si sdoppiano alla stessa maniera, per lo stesso fine? Cuphead è un gioco stratosferico perché trasuda tutto l’amore con cui è stato creato. E ci ricorda che se diamo tutti noi stessi in ciò che ci piace, se scommettiamo sulle nostre passioni, le probabilità di vincita schizzano alle stelle.
Cuphead è una storia e un’opera di caratura gigantesca. Calibrato al millimetro nel gameplay, iperlavorato nelle grafiche, zeppo di idee e dettagli brillanti, avvolgente nelle musiche, gratifica il giocatore non solo per la sua sostanza, ma anche per il sottoporlo ad una sfida vera, onesta, stimolante, una dichiarazione d’amore ai videogiochi e che amore chiede ai gamer per a portarlo a termine. E il cerchio si chiude.
La versione Switch, se da un lato inserisce quel sogno ad occhi aperti che è la modalità portatile, dall’altro accusa alcuni difetti, come certi rari e incomprensibili rallentamenti ma soprattutto una mancanza di adeguatezza da parte delle periferiche di controllo standard: specialmente in modalità Expert e per ottenere i rank più alti, abbiate l’accortezza di utilizzare il Pro Controller oppure una delle periferiche per adattare il joypad di Xbox One alla console Nintendo, perché i Joy-Con si dimostrano nuovamente inadeguati al tipo di skill richieste.
È solo per queste mancanze relative alla versione Nintendo Switch che Cuphead, in questa recensione, non riceve 10 (versione che, come le altre, viene venduta al ridicolo prezzo di €19,99).
Ma che sia chiaro: Cuphead è, e sarà, sempre, un 10 e lode, così come i suoi creatori, così come noi giocatori che decideremo di dedicarci a superare la sua sfida. Scommettiamo?
P.S. Se cercate qualche dritta per portare a termine questa incantevole avventura, sappiate che NintendOn non vi lascia soli, ovviamente: affidatevi alla nostra guida per avere sempre le tazze al posto giusto.