Ha più senso parlare di nuova generazione? Cosa si intende per generazione? Il buon cap, in un episodio della sua rubrica, ha sottolineato come il passaggio da una generazione all’ altra fosse più semplice in passato, durante l’era dei bit. Il marketing faceva gran vanto della nuova console a 16bit che avrebbe soppiantato la precedente a 8bit. In sostanza, raddoppiato il processore, si entra nella nuova generazione. In era 2D non c’era una scena di sviluppatori indie ma al più grandi e medio/piccole produzioni: se un gioco era prodotto da Nintendo, il team di sviluppo poteva essere composto da decine di persone, se il produttore invece era più modesto si poteva andare sotto la decina, similmente a quanto accade oggi per gli indie. Tuttavia nessuno parlava di “indipendenti”. Questo perché le risorse per lo sviluppo erano meno onerose, di conseguenza si iniziava a sviluppare un prototipo di gioco da mostrare ad aziende alla ricerca non solo dei fondi necessari per lo sviluppo, ma magari anche di un’assunzione.
Questi prototipi però dovevano germogliare sulla generazione attuale per essere vendibili e d’altronde nessuna azienda è interessata a un prodotto dal quale non è possibile trarre profitto. Quindi questi pionieri non sono considerabili come indie. Gli indie piuttosto sono quelli che, senza sostegno dei grossi publisher, cercano di pubblicare il proprio gioco, non necessariamente al passo coi tempi tecnicamente e oggi possono farlo grazie al digital delivery. Lo scoglio più grosso da superare infatti non era tanto la fase di progettazione in sé, ma quelle di produzione e distribuzione. Per questo prima non c’erano indie: un uomo da solo non poteva creare un gioco per console, produrlo e distribuirlo. Al massimo arrivava a sviluppare un codice che poi sarebbe andato ad adattare alla console target. Adesso invece uno sviluppatore può creare e distribuire, tutto grazie al digital delivery e al fatto che non sia più indispensabile creare copie fisiche, processo molto costoso su console dato che ogni produttore di cartucce voleva (e vuole ancora oggi) la sua parte.
C’erano però medie e piccole produzioni, ovvero giochi prodotti e/o distribuiti da aziende con un capitale non paragonabile a quello delle big del settore, che producevano giochi con un budget inferiore. Con il sopravvento dell’alta definizione il mercato è cambiato totalmente. Satoru Iwata da visionario qual’era aveva già visto qual’era il paradosso nello spingere sulla potenza bruta: costi di sviluppo troppo alti. Così, con il Nintendo Wii, gli sviluppatori hanno potuto continuare a produrre software in SD, dai costi più accessibili, potendo contare su una fonte di guadagno mentre costruivano il proprio motore grafico per i giochi HD. Nonostante la possibilità di questo approccio soft, chiamiamolo così, nello scenario attuale, le medie e piccole software house sono praticamente scomparse, cadute sotto il peso magari di un solo gioco che ha fatto flop, trascinando nel baratro della bancarotta l’intera azienda e alcune software house che potevano annoverare brand macina-soldi si sono fuse con altre aziende. I giochi AAA di adesso sono produzioni milionarie che solo poche software house riescono a produrre e anche queste, ci pensano su due volte prima di mandare in malora una serie o un introito certo. Non è un mistero che la serie di Assassin’s Creed abbia subito una brusca frenata proprio per evitare di sminuirne il potenziale.
Al giorno d’oggi, con i costi di sviluppo alle stelle, la gallina dalle uova d’oro è irrinunciabile, ma spremerla fino all’osso, e instillare nella fanbase un senso di noia, se non di nausea ricorrente a ogni uscita annuale non è nemmeno saggio proprio per i motivi sopra citati. Meglio forse intrattenere il pubblico con qualche remaster che probabilmente non faranno i numeri di una nuova produzione, ma almeno generano introiti con una spesa più ridotta e senza bufera alle spalle nel caso di scarse vendite. Con un rischio così alto, non c’è dubbio che la carica innovativa sia, se non persa nella fase di progettazione iniziale, addirittura bocciata dai piani alti: perché rischiare? Perché approvare il seguito di Beyond good & Evil se già il capostipite ha messo l’azienda in una posizione traballante? Può essere saggio accontentare la fanbase di Metroid con un nuovo Prime con il rischio di una voragine economica in agguato? Se volessimo dimostrarci ingenui ed egoisti, la risposta a queste domande asseconderebbe i nostri più reconditi desideri, piuttosto che la realtà che le aziende detentrici di quei marchi possono permettersi.
La carica innovativa quindi, ripeto. La vedete? Fatele ciao ciao con la manina. E non c’entra niente nuova IP o vecchia IP. Anche se il nome è diverso, il rischio è di trovarsi di fronte allo stesso gioco, perché assecondare i gusti dei fan, senza metterli davanti a una vera sfida, è più sicuro. La parola d’ordine è far sentire il giocatore sopra la bambagia e sotto un guscio protettivo, con l’azione decisa da uno script e con tanti piccoli accorgimenti che tendono la mano al giocatore e allontanano lo spettro del game over. Il finale di Mass Effect non piace all’utenza? Cambiamolo, altrimenti come facciamo a far uscire Andromeda? Ma se nei giochi AAA che dovrebbero innalzare lo stendardo dei videogiochi, elevare a cultura quello che è un passatempo per panciuti aristocratici (proprio come è avvenuto per altri media, o pensate forse che Caravaggio non dipingesse per commissione? O che George Lucas abbia creato un mondo altro solo per la gloria?) si crogiolano in un archetipo dal quale è meglio non allontanarsi, chi lo farà? Chi avrà mai il coraggio di introdurre argomenti di disturbo come il cancro, il controllo dell’immigrazione, la scoperta della propria omosessualità e altri ancora? E soprattutto, il videogioco, come dice la parola stessa, non è innanzitutto gioco? Cosa c’entrano questi argomenti con un hobby così frivolo?
Per rispondere a questa domanda, potremmo tirare in causa un’altra domanda: Cosa è il gioco? La risposta che tutti abbiamo in mente potrebbe essere, il gioco è un’attività in cui ci si diverte. Divertirsi non vuol dire imparare o approfondire, vuol dire trascorrere del tempo piacevole ed effimero. Ma giochi come That dragon Cancer, Papers please e Gone Home rientrerebbero in questa definizione? No di certo. Non sono giochi in cui “ti diverti”, e un gioco che non diverte solitamente non è un gioco di qualità. Ma davvero questi tre titoli che ho menzionato non hanno qualità? Non credo. Semplicemente hanno un obiettivo diverso da quello del divertimento spicciolo. Per giustificare l’esistenza di questi prodotti spesso si è ricorso a una storpiatura, ovvero, definirli “esperienze”. Abbiamo davvero bisogno di una definizione così generica? Tutto è un’esperienza. Ascoltare un vinile è un’esperienza. Gustarsi un piatto in un ristorante stellato è un’esperienza. E anche fare un’incidente con la macchina e uscirne vivi lo è. Insomma è come se per definire Moonlight, il film vincitore degli Oscar 2017, usassimo altre parole come “pellicola alternativa”, per non accomunarlo ad altri film come Mad Max. È una stupidaggine: sono entrambi film. Film con scopi diversi, così come Papers please e Super Mario sono due videogiochi con scopi diversi, questo sfoggio della parola “esperienza” l’ho sempre vista come il gesto di scagliare il sasso e ritirare il braccio. Allora ad essere sbagliata è la nostra definizione di videogioco, il nostro pensiero di gioco. Voglio citare qui Spartaco Albertarelli, il più grande game design italiano di giochi in scatola, e la sua definizione di gioco: “Il gioco è un’attività libera, fine a se stessa e praticabile da chiunque, nella quale ciascuno cerca di raggiungere un obiettivo, accettando precisi limiti imposti da regole che chiedono di essere rispettate”.
Questa definizione può indossarla Pong o The Last of Us, indifferentemente, e specifica bene le caratteristiche principali che ogni gioco deve avere: una serie di regole e uno o più obiettivi. Nella mia personalissima opinione alcuni titoli AAA stanno tradendo questa definizione, rivelandosi dei contenuti digitali in cui l’impegno richiesto al giocatore è minimo. Se non c’è impegno, o sofferenza, non può esserci ricompensa, quindi questi giochi sono semplicemente poco divertenti. Non dico siano poco interessanti, perché potrebbero avere caratteristiche che li rendono comunque tali. Una Londra ricostruita al millimetro, o un supereroe molto fedele al fumetto, o una colonna sonora di spicco. Se però non ho interesse in queste o altre caratteristiche del gioco e l’obiettivo è divertirmi e questo non succede, allora c’è un problema, ovvero è venuto meno l’obiettivo e quindi, il gioco.
Le software house non dovrebbero avere paura di spaventare il giocatore, perché la natura di questo media richiede interazione. Fare un gioco troppo guidato insomma è un errore di game design, proprio come non dare alcun indizio al giocatore per arrivare all’obiettivo, se non più grave. Per questo attualmente ritengo che gli indie siano i nuovi AAA: nel realizzarlo gli sviluppatori non hanno perso di vista l’obiettivo principale, che è quello di realizzare un gioco che funzioni, venda e dica qualcosa, piuttosto che un gioco che funzioni e venda soltanto. Inoltre gli indie si avvicinano molto al mio pensiero ideale di videogioco, dove non esistono barriere come l’età e dove la parola retrogame si usa per comodità pratica e non per tracciare confini tra una generazione e l’altra. Certamente un gioco può avere più valore se contestualizzato: Donkey Kong Country ad esempio, all’epoca lasciava a bocca aperta. Oggi, pur perdendo parte del carisma iniziale, rimane un gioco stupendo da giocare. Retrogaming o meno, se un gioco val la pena di essere giocato, non ha senso relegarlo al passato. Gli indie spesso vengono riproposti a distanza di anni e generazioni. Super Meat Boy è un retrogame? Non ho sentito nessuno definirlo così. Eppure appartiene già alla generazione passata e se poniamo Scorpio come nuova generazione addirittura a ben due generazioni fa.
L’abbattimento della definizione Retrogame, insomma, dovrebbe essere un passo in avanti di cui il settore dovrebbe farsi carico. Non esistono de resto retrolibri, né retrodischi, né retroarte. Perché esiste invece il retrogioco? Perché non dovremmo avere nello stesso store, acquistabili nel 2017, il nuovo Has Been Heroes e il vecchio Trine dello stesso sviluppatore? Non esiste motivo per cui non dovrebbe essere possibile, e infatti gli store digitali cercano di ampliare l’offerta in ogni maniera possibile, accontentando i palati di chiunque, senza distizione tra retrogame e gaming attuale. Da questo punto di vista gli indie, e il loro metodo di distribuzione, uccideranno il retrogame, inteso come concezione di modo di giocare – piuttosto che come categoria.
Quando affermo con amici dai gusti differenti dai miei, di non avere più interesse nelle grosse produzioni, dovrei aggiungere la parola OGGI. Perché avere third party in era Snes, e non mi riferisco ad esclusive ma a multipiattaforme anche, mi interessava. Adesso ritengo l’offerta indie più importante di quella third party, ed è per questo che nutro più aspettative nei direct dei nindies che in grosse sorprese dai publisher più affermati durante l’E3. Sono anche consapevole che si tratta di percezioni personali e che ovviamente non sentire la mancanza di Fifa non renda più valide le mie affermazioni. Ma vi lascio con una domanda: quanti giochi indie avete giocato l’anno scorso? E quanti giochi tripla A? Fate la sottrazione e ditemi chi la spunta.