NintendOn è lieta di pubblicare e mettere in luce approfondimenti sul mondo del gaming. In questo speciale Francesco Toniolo, di cui trovate una piccola bio in fondo all’articolo, ci offre una particolareggiata disquisizione sul mondo della natura e la cerca dell’eroe nel mondo di Zelda. Buona Lettura!
La foresta, la selva, il bosco, la palude: territori al di fuori del mondo umano, ai confini degli insediamenti, luoghi dominati dalla presenza di divinità demoni. Una dimensione a cui bisogna accedere con rispetto, consapevoli che si sta entrando in un mondo differente da quello della quotidianità. Tutto questo, e molto di più, hanno rappresentato le foreste per culture differenti, nel corso della storia.
Ma la foresta può anche essere un filo rosso per osservare le tappe della serie The Legend of Zelda, in quanto sempre presente in questi videogiochi. Di più: non solo la sua presenza è costante, ma ha una importanza alquanto accentuata, che si manifesta in almeno due modi differenti e opposti, a seconda di quale capitolo della saga si andrà a considerare.
Partiamo dall’inizio, con The Legend of Zelda per Famicom dell’ormai lontano 1986. Qui la dimensione della foresta non è ancora molto distinta dagli altri ambienti presenti. Quel che manca è soprattutto una presenza umana (antropica). Dove c’è la civiltà si presenta una contrapposizione fra spazio civilizzato e spazio selvaggio, fra città e wilderness. Link qui attraversa uno spazio del naturale (e contaminato dal male) in cui i segni di civiltà sono pochi, costituiti soprattutto dai dungeon, ugualmente “selvaggi” nell’accoglienza che riservano all’eroe.
Un elemento è comunque da sottolineare. Come ormai noto, una delle ispirazioni alla base della serie furono le peregrinazioni giovanili di Shigeru Miyamoto fra boschi e campagne, esplorazioni caratterizzate dalla libertà di movimento in uno spazio sconosciuto, e dallo stupore (non solo verso l’ignoto, ma anche verso qualcosa che già è noto che all’improvviso appare davanti agli occhi sotto una luce nuova). Un Giappone rurale che oggi, a distanza di anni, si è irrimediabilmente ridotto, al pari delle foreste e delle campagne europee e asiatiche. Il folto manto di foreste, le impenetrabili barriere dimora degli spiriti (demoni o kami o abitanti del piccolo popolo, o altro ancora a seconda della cultura di riferimento), sconfitte di volta in volta dal susseguirsi delle glaciazioni e ogni volta rinate, come dopo un sonno, sono oramai un paesaggio del passato per molte regioni.
Di opere sull’argomento se ne potrebbero citare moltissime, fra le tante – per restare al Giappone – film d’animazione come Pom Poko (1994) di Isao Takahata o numerose pellicole di Hayao Miyazaki come Principessa Mononoke (1997). Oppure uscendo dal Giappone un nome fra i tanti può essere il toccante L’uomo che piantava gli alberi (L’homme qui plantait des arbres, 1953) di Jean Giono. Si tratta comunque di elementi ben lontani dal videogioco–testo The Legend of Zelda, sebbene riguardino in qualche misura il “racconto metatestuale” (che sta ‘al di fuori’ del videogioco), legato all’infanzia di Miyamoto. Non c’è in Link una preoccupazione ‘ecologica’ per la natura perduta (che per quanto corrotta sembra al sicuro dalla minaccia della civilizzazione), né Ganon è una sorta di magnate del cemento. Questa, comunque, è solo la prima tappa.
Con Zelda II: The Adventure of Link (1987) il rapporto viene maggiormente sviluppato. Innanzitutto viene inserita una dimensione cittadina, attraverso diversi paeselli che vanno a formare quel paesaggio umano, prima assente, che fa da contraltare alla sempre abbondante wilderness, alla natura selvaggia e ostile. Da un territorio completamente “nemico” si passa dunque a una prima polarizzazione: città vs natura, civiltà vs selvaticità, rifugio vs pericolo. Link può dirigersi nel più vicino insediamento per guarire, o anche solo avere un attimo di respiro, mentre vagabondando per i territori circostanti può in qualsiasi momento imbattersi in un gruppo di mostri. Per inciso, si può anche aggiungere una ulteriore contrapposizione fra l’ordine dei villaggi, con la loro struttura fissa, e la casualità e il disordine dell’esterno, con i suoi incontri casuali.
In The Adventure of Link, dunque, le tetre foreste in cui ci si imbatte di quando in quando, popolate da ragni giganti e mostri vari, non presentano differenze fondamentali rispetto agli altri ambienti naturali (dimora di altrettanti nemici). Tutti questi ambienti però, foresta compresa, si oppongono come detto alla dimensione cittadina. Link è qui, almeno in qualche misura, un eroe della civiltà, che deve lanciarsi più e più volte nella wilderness per compiere la sua quest, uscendone di volta in volta trionfatore, per far poi ritorno alla civilizzazione e lanciarsi in una nuova avventura.
Un nuovo passo in avanti giunge con The Legend of Zelda: A Link to the Past (SNES, 1991), con i suoi lost woods. Qui si fa strada la differenziazione della foresta rispetto ad altri ambienti, non solo per caratteristiche proprie, ma anche per la missione che Link deve compiere in quel determinato luogo. I boschi sono lost, “perduti”, e già questo è significativo: sono un qualcosa un tempo sotto controllo, ma ora costituiscono una res nullius (dal latino, “cosa di nessuno”). Questo elemento, del resto, è caratteristico di molte reali distese boscose del passato, che rimangono al di fuori della giurisdizione umana. Un bosco come ambiente estraneo, in cui può entrare solo chi, in un modo o nell’altro, è al di fuori delle comuni leggi: è storicamente il territorio di caccia del sovrano, o la dimora dei briganti, se non entrambe le cose. Ma qui, in A Link to the Past, è anche il luogo in cui si trova la spada suprema, ben nascosta agli occhi esterni. La spada è un potente reperto del passato, di un qualcosa che accadde prima ma che ancora mantiene il suo potere, come – nel nostro mondo – i santuari dei druidi rimasti nel cuore delle selve, luoghi di potere sopravvissuti per anni, se non secoli, all’avanzata prima romana e poi cristiana.
Link è anche in questo caso un eroe civilizzato, che a un certo punto riceve una “chiamata”, da parte della principessa Zelda, e qui inizia la sua missione. Questa missione porta l’eroe a percorrere ed esplorare territori selvaggi, fra cui rientrano anche i citati lost woods. La foresta è però ricca di illusioni, di false spade e inganni, avvolta nelle nebbie, la sua dimensione è quella del labirinto, in cui spetta al videogiocatore trovare il giusto percorso. Facile il richiamo alla ben nota “selva ariostesca” dell’Orlando Furioso, labirintico paesaggio dove gli eroi si perdono e rincontrano più e più volte. Qui però, in A Link to the Past, abbiamo una sua versione svuotata, dove non ci sono tanti eroi diversi, ma un solitario Link. Non viene meno però quell’immagine del labirinto, che così come Ariosto applicava anche al castello di Atlante (altro celebre luogo del Furioso), allo stesso modo qui si può vedere anche nella struttura dei numerosi dungeon da esplorare.
Ma viene in mente anche quella che è divenuta quasi una costante in molti altri videogiochi: la perdita della bussola, di ogni riferimento, nel cuore della foresta. I punti cardinali si confondono, lo spazio perde il suo ordinamento, non si sa più quale strada prendere e si ritorna sempre sui propri passi, senza volerlo. Tanto gli Hobbit dispersi nella Vecchia Foresta in Il Signore degli Anelli: La Compagnia dell’Anello (GBA, 2002) quanto Cartman e compari che vagabondano nella boscaglia intorno alla città, in South Park: Il bastone della verità (PC, PS3, XBox 360, 2014), per prendere due esempi molto distanti fra loro. Qui la radice ancestrale potrebbe essere, inconsapevolmente, questa: i riti legati al “ramo d’oro”, in tutte le sue varianti, che consentivano l’accesso al regno dei morti o l’uscita dal medesimo. L’ingresso per questo mondo poteva proprio essere in prossimità di una foresta, impenetrabile senza il giusto strumento. Per compiere una catabasi (cioè una discesa al mondo dei morti) è infatti necessario dotarsi, come fece Enea nell’Eneide virgiliana, di un “ramo d’oro”, quello che nel poema consente all’eroe di ritrovare la via di casa, e che ha poi assunto, talvolta, un significato più ampio. Non solo: se l’ottenimento della spada ha una sua importanza, nell’evoluzione eroica di Link, il suo addentrarsi nella foresta corrisponde ai soggiorni degli iniziati in un luogo lontano dalla comunità, spesso proprio una capanna nel bosco, comune a tante culture differenti. L’iniziato, in solitudine, attraversa una morte simbolica, in cui viene ‘uccisa’, attraverso un rituale, la sua precedente condizione (di fanciullo o non–iniziato), cui segue una rinascita a membro della comunità.
Su questo, lontano, collegamento con il mondo dei morti si può tornare brevemente, a proposito di The Legend of Zelda: Link’s Awakening (Game Boy, 1993), per la figura del gufo. Animale tradizionalmente psicopompo (cioè che accompagna le anime nel regno dei morti), legato a molteplici realtà: la dimensione notturna e del sogno, l’intelletto e la scoperta, la foresta specie se oscura. Costituisce una guida per buona parte dell’avventura di Link sull’isola di Koholint, scenario non propriamente oltretombale (non è il mondo dei morti), ma per certo “notturno”, per il tema onirico che lo attraversa (il sogno del Wind Fish), in cui la rivelazione è affidata proprio al gufo stesso. L’animale è il ‘ramo d’oro’ di Link per muoversi nella ‘foresta’ di sogni e illusioni che rappresenta quel mondo. Percorso rappresentato, in scala ridotta, dalla Mysterious Forest, un reale bosco, oscuro, notturno, dove avviene uno dei primi dialoghi col gufo.