Trovarsi sotto le feste a girovagare per negozi, come cliente e per lavoro, permette di inquadrare in maniera completa ed esaustiva la percezione di un determinato prodotto da parte del consumatore.
Alternare la propria posizione tra colui che ha il potere d’acquisto e chi fornisce un servizio apre a dinamiche che dipanano le matasse d’incertezza e d’insicurezza del consumatore medio, esponendo al tempo stesso, con lampante chiarezza, l’effetto delle campagne di comunicazione sul pubblico.
Per quel che concerne Nintendo, questo Natale ha messo alla luce non solo alcune delle sue deficitarie scelte marketing, ma anche l’incredibile miopia nella gestione del brand Wii.
Che il progetto Wii U abbia conseguito risultati ben lontani dal soddisfacente a causa di un nome assolutamente sconveniente e dall’incapacità di identificarsi come piattaforma realmente evolutiva – anche per bizzarre scelte in ambito di sviluppo – non è certo una novità per le orecchie di nessuno: troppi passi falsi, poco supporto, assenza dei grandi nomi e generalizzata bad pr da parte di personalità e aziende del settore che non è stata in alcun modo arginata. Tutti gli ingredienti per otterere un grande successo, non c’è che dire.
Ma non è di Wii U che si vuole parlare, bensì di Wii.
Wii ha rappresentato uno spartiacque per il modo di intendere il videogioco, introducendolo in maniera semplice ed accessibile a milioni di non-giocatori che avrebbero dovuto crescere e maturare di pari passo con l’evoluzione delle console, evolvendo da neofiti a gamer. Ci siamo trovati invece una schiera di non-giocatori che hanno gonfiato i numeri di un successo talmente clamoroso da essere la sua stessa condanna: Nintendo ha abbandonato milioni di persone che non avevano nessuna intenzione di progredire come giocatori e che si aspettavano di essere accompagnati mano per la mano nel corso degli anni.
All’apice del successo di DS e con l’arrivo di Wii si diceva che Nintendo potesse diventare la Apple dei videogiochi, ma ha fatto di tutto perché questo non accadesse. Sbagliando.
Forse potrà risultare impopolare richiamare un modello di business che effettivamente è distate da quello dell’entertainment videoludico, ma uno slancio pionieristico della casa di Kyoto verso proposte di mercato che nel corso degli anni potessero migliorare, senza necessariamente stravolgere, la user experience offrendo prodotti hardware rinnovati a distanza più breve del consueto l’uno dall’altro, avrebbe potenzialmente esteso la vitalità e la celebrità del brand Wii.
Se anziché aspettare 6 anni per un prodotto che alla fine si è rivelato né carne né pesce si fosse presa di petto la situazione, lanciando nel 2010 un secondo Wii migliore del precedente ma ad un costo di accesso proporzionalmente ridotto (incentivando in maniera consistente il trade-in in prima persona), le migliaia di persone che attualmente si stanno domandando dove sia finito quel prodotto fantastico che ogni anno rappresentava il regalo ideale – e al giusto prezzo – avrebbero trovato con facilità il modo di spendere i loro soldi e probabilmente la ricettività del mercato avrebbe permesso di mantenere alcuni fondamentali legami con le terze parti.
Al tempo di quello che avremmo potuto definire “Ritmo Nintendo”, la casa di Kyoto si sarebbe trovata a prevaricare il concetto di generazione di console abbattendo i costi di passaggio al nuovo hardware. L’iconico telecomando sarebbe potuto essere protagonista ancora per un altro giro, lasciando il passo a sistemi alternativi solo quando questi fossero realmente accessibili quanto a costi e in linea con le più diffuse interfacce utente – vedi smartphone/tablet.
La volontà di Nintendo di sconvolgere ogni volta il mercato a colpi di rivoluzioni l’ha sempre fatta amare agli occhi del pubblico, ma non sempre si possono ripetere i miracoli in sequenza.
Nintendo con Wii U ha provato a recuperare quelli che erano i core gamer, abbandonando completamente tutti coloro che avevano trasformato una pessima battuta (ricordate l’ironia del web all’introduzione del nome Wii?) in un fenomeno. Gente che si aspettava di trovare sulla bianca console sempre nuovi giochi e che ingenuamente si stupisce del mancato supporto nel corso del tempo, abituata a piattaforme su cui i contenuti si susseguono freneticamente senza sosta, pronta ad adeguarsi alla danza del nuovo acquisto così come con il nuovo iPhone… a patto di avere le giuste motivazioni e senza l’ostacolo di un prezzo che carica sul consumatore anni di R&D e/o periferiche azzardate.
Sganciarsi dai cicli vitali classici delle console per gamer per avvicinarsi a quelli dei prodotti di ampio consumo ci avrebbe forse consegnato un Natale 2014 con un Wii 3 sugli scaffali e tutti i titoli più amati come FIFA, Assassin’s Creed, Call of Duty, Minecraft (ironia della sorte, annunciato mentre scrivevo queste righe – NdR) disponibili, conducendoci a questo 2015 in condizioni totalmente differenti. Ma è roba da confini della realtà, da universi paralleli, in quanto frutto di scelte di mercato assolutamente incompatibili con il tradizionalismo mostrato della sede Giapponese.
Difatti, Nintendo non è e non sarà mai la Apple dei videogiochi.