Riflettiamo sui VG: Opinioni Opinionabili è lo spazio dove Diego “Elflum” Inserauto erutta i suoi pensieri borderline, il titolo che ha scelto per la rubrica ha un errore ortografico ma dice che è una cosa voluta. Il pensiero di Elflum non coincide necessariamente con quello della redazione di NintendOn ma del resto, alle volte, nemmeno con quello di Elflum.
Sono stato un bambino diligente e taciturno, introverso dicevano. Centellinavo le amicizie perché non mi trovavo a mio agio con gli altri bambini: io ero uno curioso, prendevo un vinile perché non lo conoscevo, mettevo le cuffione e zack, ore a navigare nuovi lidi nell’accogliente piumone ottenuto con i punti di Susanna (il formaggino), nel totale silenzio. Se c’era musica era dentro di me, se c’era poesia era dentro di me. Fuori di me c’era la scuola, con le sue aule fredde e coi maestri che non capivo, i versi di scrittori e poeti imparati a memoria più delle tabelline e le figurine calciatori dei compagni con cui non ho mai legato. Una piccola percentuale di compagni e amici di compagni però era estromessa dalla regola: chi possedeva una cartuccia nes o game boy. Perché il videogioco era un aggregatore indiretto, ero ben lungi dal condividere le mie passioni per scelta ma i giochi costavano tanto, ma tanto, e i miei facevano quello che potevano per rendermi felice comprandomene almeno uno a Natale e uno per il compleanno. La situazione per gli altri bambini non era tanto differente dalla mia: scambiare era l’unica possibilità per giocare ad altro.
Altro che collante sociale, il videogioco allora era sempre oggetto di accuse, se non di vera e propria demonizzazione. Sorrido amaramente quando penso che oggi, andare in giro con un iPhone è un po’ sfoggiare il proprio status symbol, mentre in tempi oscurantisti c’era chi negava di avere un computer games a casa per non essere preda di sguardi strani o occhiatacce. Ogni visita dall’oculista finiva con la frase del dottore “…e magari vediamo di farlo uscire un po’ questo ometto eh? Stare con gli occhi attaccati allo schermo non migliorerà la sua vista”. Alle riunioni dei genitori poi c’era sempre qualche adulto pronto a vantarsi di non aver comprato “quella roba” a suo figlio, nemmeno una volta. Qualcuno riuscì a convincere mia madre che il televisore si sarebbe rotto di certo a furia di usarlo con i videogiochi. Fortunatamente mio padre era di opinione opposta: non avrebbe più potuto giocare a Super Mario Bros altrimenti.
Col passare del tempo le cose sarebbero cambiate. Forse non c’è una data da ricordare, ma se dovessi mettere un legnetto per segnalare i confini direi che l’avvento della prima Playstation, con le sue pubblicità rivolte a un pubblico più ampio, è stato l’evento spartiacque. Certo, ci sono stati veri e propri casi mediatici come il ritiro dal mercato delle copie di Resident Evil 2, ma l’attenzione si era spostata dal settore nella sua interezza ai contenuti maturi, così come l’azione cattolica si concentrò sul metal e sui messaggi al contrario piuttosto che sul rock’n’roll in toto. Questo vuol dire che il media sta crescendo, vuoi perché il motore sociale gira più velocemente in questo nuovo secolo, vuoi perché, come avvenuto con il rock e il cinema, il pubblico che ne fruiva è cresciuto e ha una conoscenza meno vaga dell’argomento. Oggi il tuo operatore telefonico ti dirà che Assassin’s Creed online va una scheggia per convincerti della qualità della connessione internet, ieri il personale incaricato di verificare il corretto funzionamento dell’adsl aveva bisogno di te per accendere il PC.
Tutto questo finora è stato un, spero non troppo noioso, preambolo per comunicare il mio disagio odierno, che va crescendo esponenzialmente con l’aumentare dei videogiocatori.
Questa volta non saprei davvero dove affondare il doloroso legnetto del confine. Non so quando è iniziato, forse con il Wii e la sua caotica gestione da “chiedono altri cornetti, sforniamo altri cornetti, presto!” o ancora ai tempi del Gamecube, quando si faticava a trovare i giochi, anche quelli più famosi, sugli scaffali dei centri commerciali, o ancora ai tempi del Nintendo64 e il suo strambo pad tricornuto.
Quando alle cene eleganti, a cui partecipo in quanto personalità di spicco, qualcuno tira fuori il cellulare per giocare a Threes. Quando a lavoro mi chiedono cosa ci sarà di nuovo nel prossimo Uncharted. Quando su Facebook devo fare un esempio e scelgo di farlo con qualcosa a cui non ho giocato, che non ho vissuto.
Ritrovo gli stessi sguardi che cercavo di evitare negli anni ’90, quando rispondo alla domanda: “A cosa stai giocando?”, quasi ci fosse una freccia che indica me su un pianeta sperduto e un’altra che indica tutta un’altra categoria di persone che compone il mondo reale e dal quale sto alla larga. Ma non è così. Io non ho mai smesso di giocare. Ho solo scelto i giochi che mi piacevano di più, quelli fatti a base di gameplay e tanta cura a cui mi hanno abituato. Se non ho comprato Skyrim o il pluricitato Assassin’s Creed è perché questi giochi non raggiungono lo standard a cui devono arrivare gli sviluppatori per soddisfarmi, mentre un gioco, esteticamente meno complesso (anche se solo in apparenza) come Super Mario 3D World, ci riesce. Probabilmente agli sviluppatori non può fregare di meno delle mie opinioni e le vendite di Creed stanno lì a dimostrarlo. Occhio però che le vendite non dicono nulla sulla qualità di un prodotto, a meno ché non mi veniate a dimostrare perché Justin Bieber sia meglio di Neil Young o perché un nuovo Fast’n’Furious sarà più bello di Rush. So di fare paragoni fuori luogo tra generi differenti ma era per dare l’idea: l’affermazione “ci giocano in tanti” può contare zero in determinati discorsi.
Quindi io non sono più il videogiocatore. Non posso più entrare a gamba tesa nei discorsi per dire la mia, come avrei potuto fare quando avevo venti anni in meno, perché paradossalmente adesso sono io a non conoscere più l’argomento. Se il videogioco che vende è quello più scriptato allora vuol dire che il videogiocatore di oggi è di un altro tipo, diverso dal mio. Nel mondo ludico che conosco io Bayonetta 2 è un gioco per il quale le produttrici di hardware si darebbero battaglia e The Wonderful 101 è una gemma che non può essere ignorata. La cosa buffa invece è che nel mondo reale chi si definisce hardcore gamer gioca a corridoi in prima persona e sbeffeggia chi inclina il Gamepad per far andare il carrello di Donkey Kong nella giusta direzione.
La cosa che mi sconforta tutto sommato, è proprio questa: l’innalzamento di inutili barriere. Quando ero piccolo la rivalità tra Nintendari e Segari erano sì infervorati nelle discussioni tra cosa è meglio e cosa no, ma facevano comunque comunella contro il resto del mondo che vedeva i videogiocatori come dei reietti incapaci di socializzare, con principi di asma dovuta alla mancanza di sport e con un futuro incerto a causa del, molto probabile, scarso QI. Le stesse barriere tra chi non giocava e chi giocava oggi le rivedo tra chi gioca a Dark Souls e chi gioca con gli Smartphone.
Ovviamente non sto descrivendo tutti i videogiocatori come un unico insieme, siamo tutti abbastanza maturi per capire di quale tipo di videogiocatore stiamo parlando e vale a dire: i miei compagni di classe. Sono sempre loro. Per questo non volevo prestargli le cartucce! Quello che giocava a guardie e ladri oggi gioca a Call of Duty e mi sfotte perché Animal Crossing è per femminucce. Quell’altro che giocava alle macchinine facendo le rampe con i portacolori in aula si sente più figo perché ha tante patenti in Gran Turismo (e magari nessuna nel portafogli) e ride del mio Mario Kart 8.
Eppure pensavo che il videogioco avesse già conquistato una sua posizione netta, a prescindere di quale videogioco si tratti. Non credevo che sarei tornato il bimbo introverso che ero un tempo, pur di non iniziare un interminabile discorso sul perché compro ancora Mario. Da quel tunnel, ero uscito, ne sono certo. Solo che fuori da quel tunnel c’era freddo e poi non conoscevo nessuno. Per questo sono rientrato.