Lone Survivor: The Director’s Cut – Recensione

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Genere: Survival Horror
Multiplayer: Non presente
Lingua/e: Inglese

Diciamoci la verità: gli sviluppatori di videogiochi hanno un arduo compito. Al di là delle singole qualità e capacità di ciascuno, è pacifico che l’obiettivo ultimo nel processo di creazione di un manufatto videoludico è, principalmente, uno solo: confezionare un prodotto che abbia caratteristiche tali da renderlo appetibile al maggior numero possibile di utenti. Se l’obiettivo è chiaro (pur ammettendo che, messo giù così, il tutto potrebbe sembrare un tantino troppo pragmatico e privo della magia che ognuno di noi vede nel medium), il come ottenerlo è un altro paio di maniche: appurato che fantasia e ingegno umano non hanno (quasi) limiti, ci sono invece paletti saldi e difficilmente scavalcabili quali budget, limitazioni tecnologiche, tempo e via discorrendo, che spesso rendono il compito arduo. Da questo punto di vista il circuito di sviluppatori indie, cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni, ha rappresentato, e lo sta facendo tutt’ora, una fucina inaspettata di sperimentazioni e freschezza di contenuti che le storiche major fanno più fatica a produrre. Il perché si ricollega con quanto detto sopra: i piccoli sviluppatori sono molto meno limitati dai famosi paletti e più liberi di creare, azzardando anche lo sviluppo di progetti che, per svariati motivi, farebbero molta fatica a trovare spazio nel circuito classico di distribuzione.

La questione di fondo è però la stessa, dato che non sempre la strada della creatività e sperimentazione porta verso un buon risultato; i game designer, quindi, da bravi furbacchioni, spesso utilizzano dei trucchetti: uno dei più comuni è quello di far leva sui ricordi dei “bei tempi andati” che, per i giocatori più navigati (come, ahimè, il sottoscritto) consiste nel proporre richiami, più o meno marcati ed evidenti, alla gloriosa epoca degli anni ‘80 videogiochi, dove un pugno di pixel e l’audacia di alcuni giovani programmatori conducevano gli intrepidi player in mondi meravigliosi e strabilianti. Nonostante siano passati ormai un po’ di annetti e il mondo videoludico sia profondamente cambiato, la formula old school ha dimostrato, in più di un’occasione, di avere ancora qualche freccia di buona qualità da scoccare e Lone Survivor: the Director’s Cut ne è un’ennesima prova.

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Ah, casa dolce casa… uno dei pochi luoghi sicuri di tutto il gioco.

Come successo già diverse volte in occasione dell’approdo di titoli sull’eShop del Wii U, il gioco in questione non è nuovo, fatto peraltro intuibile dal suffisso “the Director’s Cut” del titolo. Questo particolare survival horror ha visto infatti la luce nel 2012 su PC, per poi approdare l’anno seguente su Vita e PS3 e giungere, infine, sui nostri Wii U in questa versione che altro non è se non una semplice trasposizione della versione (già Director’s Cut) per console Sony. Per chi dunque lo avesse già giocato in una delle sue versioni precedenti, per mettere subito tutte le carte in tavola, in pentola non troverà a bollire niente di nuovo: se già la versione originale e quella Director’s Cut viaggiavano su binari paralleli e molto vicini, parimenti la versione per la home Nintendo non offre migliorie di sorta, se non la “portatilità” grazie allo schermo del Gamepad (qualità comunque da non sottovalutare). Per chi invece si trovasse per la prima volta a sentir parlare di questo particolare gioco, il mio spassionato consiglio è di adottare un approccio al titolo molto cauto. Questo perché di tutto si può dire sulla creazione di Jasper Byrne ma non che pecchi di personalità: ed è proprio questa dirompenza che saprà colpirvi come un pugno nello stomaco durante i primi minuti che seguiranno il primo clic sull’icona di Lone Survivor. Il gioco poi può piacere o meno, ha di certo i suoi bravi difetti ma, fin da subito, mette le cose in chiaro: musica straniante di sottofondo, l’indicazione di giocare al buio indossando le cuffie e un brevissimo prologo in cui vengono tessuti i radi e inquietanti fili della trama su cui spicca, come una pietra tombale, la cruda frase che il protagonista pronuncia prima di lasciarci il comando della situazione, ovvero I don’t want to die alone, non voglio morire da solo.

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Nessuno spera di avere come vicini di casa dei mostri repellenti.

Il tono generale della produzione Curve Studios, cupo, opprimente e, a suo modo, tragico, prende dunque forma fin dalle primissime battute: il gioco ci mette nei panni di un sopravvissuto a una misteriosa pandemia che ha costretto il nostro (anti)eroe a rifugiarsi in uno squallido e sudicio appartamento di un altrettanto orribile palazzo. Come numerose opere horror però ci insegnano, non sempre l’isolamento e la (relativa) sicurezza di un rifugio sono situazioni ideali e, infatti, il nostro sopravvissuto (chiamato impersonalmente “You”) decide che è arrivato il momento di uscire a cercare altri sopravvissuti e tentare di preservare quel poco di sanità mentale che ancora gli è rimasta. Comincia così uno spaventoso e surreale viaggio incentrato, fondamentalmente, sulla sopravvivenza: il protagonista è tutt’altro che un eroe e il fatto che il complesso abitativo in cui si svolge la vicenda sia popolato da orribili mostri di varia foggia e dimensione, tutti accomunanti dal desiderio di carne fresca, renderà l’incedere cauto e difficoltoso. Come da buon manuale del survival horror insegna, i nemici sono molti e resistenti e le risorse per abbatterli sono scarse e difficili da reperire: Lone Survivor non fa ovviamente eccezione e l’unica arma con cui potrete sbarazzarvi dei mostri è una pistola e poche manciate di proiettili. Sarà dunque necessario essere estremamente parchi nell’utilizzo delle preziose munizioni e spenderle solo quando l’unica alternativa è la morte: nella altre occasioni bisognerà giocare d’astuzia, nascondendosi in anfratti oscuri e strisciare in silenzio alle spalle di un mostro, attirando e distraendo le repellenti creature con dei succulenti (per loro) bocconi di carne marcia o accecandoli momentaneamente con un bengala. La fragilità e l’insicurezza del protagonista, tormentato anche da sogni e visioni disturbanti, trasmettono un generale senso di angoscia nel giocatore, sensazione che ci accompagna lungo tutto il corso dell’esplorazione che, peraltro, è essa stessa un fattore destabilizzante.

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Incontrare, nel bel mezzo di una pandemia, un uomo con una scatola di cartone in testa? Fatto!

Nonostante le ambientazioni non siano grandissime, girare per le stanze e i corridoi del complesso residenziale sarà alquanto complicato a causa dello stridente connubio di un gioco dall’impostazione 2D ambientato però in una mappa, sostanzialmente, 3D (che, se avrete la malsana idea di scegliere il livello di difficoltà più alto, non potrete nemmeno consultare a piacimento). Nei primi minuti di gioco vi ritroverete a consultare la mappa ogni tre passi per orientarvi e le movenze basicamente semplici, ma legnose, del protagonista non faranno altro che aggiungere benzina sull’ardente falò della tensione. Oltre all’esplorazione, preminente, il gioco ci mette di fronte anche ad altre situazioni: combattimenti, pur estremamente semplici e sporadici, il soddisfacimento dei bisogni primari del protagonista, quali sonno (che permette anche il salvataggio del gioco) e  nutrizione e l’incontro con vari personaggi, che definire bizzarri è di poco, di vario peso e importanza nell’economia dello svolgimento della trama. Le linee di testo (attenzione, tutte in inglese!) che scorrono nel corso dell’avventura sono spesso indecifrabili, con il quadro generale del gioco che finisce ben presto per ricordare da vicino lo stile di Lynch o le contorte trame di Lost. Tutta l’avventura, peraltro, non lesina occhiate più o meno marcate in direzione di opere famose e blasonate, partendo da Silent Hill fino ad arrivare a Maniac Mansion, passando per le avventure punta e clicca tipiche degli anni ’90. La narrazione, sebbene oltremodo criptica, si dipana bene lungo tutto il corso dell’avventura ed è possibile che  le oniriche vicende a schermo vi convinceranno magari ad una seconda run per tentare una lettura dell’opera più completa, forti anche di una già plasmata conoscenza di eventi e accadimenti: nel caso voleste tentare, sappiate che la rigiocabilità è quantomeno discreta, grazie alla presenza di finali alternativi.

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Scene oniriche e surreali: Lone Survivor è anche questo…

Lo stile di Lone Survivor è certamente un marchio di fabbrica del gioco: rozzo e grezzo, non fa veramente nulla per mettere a suo agio il giocatore. I corridoi bui e angusti, il disorientamento nel muoversi tra stanze e appartamenti molto simili tra loro e gli sprite slavati e grossolani che compongono il mondo di gioco sono funzionali a ciò cui il titolo, idealmente, punta, ovvero creare disagio e straniamento nel giocatore. Quello che però è un punto di forza del gioco, rischia di rappresentarne, al tempo stesso, uno dei suoi maggiori limiti, a causa dell’estremismo cui Jasper Byrne ha voluto spingersi sotto questo aspetto. Se sul tono generale soffocante e cupo dell’intera produzione è difficile muovere critiche (è un survival horror), più di qualche perplessità suscita invece la scelta di ricorrere a uno stile grafico così dozzinale: nulla da ridire sulla scelta di uno stile marcatamente anni ’80 dove i pixel risaltano nella loro spigolosa bellezza, ma il problema vero risiede nel fatto che qui la leggibilità stessa del gioco risulta gravemente compromessa. Badate bene, non sto parlando della palette di colori scura o della fioca illuminazione presente in molti ambienti del gioco, mi riferisco proprio al fatto che, tanto per fare un esempio, la definizione dell’immagine è talmente sgranata che capita spesso di vedere un oggetto per terra ma di non capire assolutamente di cosa si tratta finché non lo si raccoglie. Per non parlare poi delle volte in occasioni delle quali nemmeno si capisce che quel piccolo ammasso bianco nell’angolino è un oggetto (magari pure molto utile), o delle occasioni in cui usate delle preziosissime pallottole per abbattere un mostro solo per scoprire che quello che credevate essere un utilissimo bengala si rivela invece invece una molto meno utile lattina di soda.

Sebbene la durata dell’avventura sia piuttosto ridotta (stando larghi, parliamo di cinque ore scarse di gioco), la sorpresa iniziale si tramuta dopo la prima mezz’ora in una leggera sensazione di disagio, per sfociare ben presto in vero e proprio fastidio per la necessità, a volte, di doversi avvicinare oltremodo allo schermo del televisore per tentare di mettere meglio a fuoco un qualche dettaglio. La situazione migliora peraltro in maniera sostanziale nel caso in cui si guardi lo schermo del Gamepad, che dunque diventerà ben presto naturale utilizzare come main screen.  Questo aspetto porta, oltre a quello appena citato, anche un altro problema: nonostante il gioco riesca molto bene a creare un’atmosfera cupa e opprimente, lo stile grafico edulcora parecchio la sensazione di angoscia e il titolo, a conti fatti, non fa paura, nemmeno un po’. Gli ammassi di pixel rosa che rappresentano i mostri non paiono poi così temibili, così come le disturbanti ambientazioni che ci troveremo a esplorare non fanno così tanta impressione: la resa a schermo di questi elementi è davvero troppo approssimata per restituire un vero feedback emozionale. La sensazione è che Lone Survivor, con sprite appena più definiti e un pochino meno sgranati, avrebbe potuto fare molta, ma molta più paura.

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Vattene via, bestia immonda!

Il sonoro è di buonissima fattura sia per quanto riguarda gli effetti sonori che le musiche: il tutto è stato creato personalmente da Jasper Byrne, cui va un grosso plauso per l’efficacia con cui l’accompagnamento ci guida nelle varie fasi dell’avventura, alternando melodie oniriche a pezzi stranianti che sottolineano bene l’alternarsi di situazioni ora surreali, ora spaventose, ora inquietanti.

Lone Survivor è, in definitiva, un titolo cui potrebbe valere la pena dare una possibilità: per l’approccio originale che adotta, per la qualità della narrazione, onirica e surreale come non di frequente accade nel medium videoludico e per l’efficacia nel perseguire l’obiettivo di disorientare e coinvolgere il giocatore. Ovviamente è necessario prendere atto del fatto che è un titolo dalle peculiarità quasi uniche nell’attuale panorama videoludico e, consci del fatto che non sempre “diverso” è sinonimo di “migliore”, quello che è necessario chiedersi è quanta apertura mentale si è disposti ad adottare nell’approccio al titolo. Se avete voglia di provare a confrontarvi con qualcosa che vi stimoli in maniera difforme da quanto siete abituati, allora accendete la torcia e calatevi nel mondo malato di Lone Survivor: buona fortuna!

7.4

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